Gabriele Battaglia, Left 15/2/2014, 15 febbraio 2014
DISCARICA PECHINO
Nel 2006, sulle scale del pensionato studentesco per stranieri dell’università del Popolo di Pechino, ci si imbatteva tutti i giorni e a tutte le ore in un piccolo uomo. Non c’era bisogno di dirgli nulla, se non “ciao”: tutte le bottiglie di plastica dell’élite studentesca globalizzata passavano direttamente nelle sue mani e quindi in un sacco nero. Nel 2013 – nel frattempo c’erano State le Olimpiadi, la leadership del Partito era cambiata e nuovi studenti, erano succeduti a quelli vecchi – lui se ne stava ancora lì, imperterrito, seduto sullo stesso gradino della stessa scala, a raccogliere rifiuti di plastica.
Nel palazzo di quartiere di Dongzhimen, tutti i sedici piani sono intasati di immondizia. Salire per le scale è un viaggio strampalato nell’usa e getta con caratteristiche cinesi: sedie, sacchetti dai più vari contenuti, scatole di cartone, un kalashnikov ad acqua, cavoli lasciati a imputridire, un’automobile a pedali, un albero di Natale finto. Sfiorando i muri, il grande camion si infila in un hutong, uno dei tradizionali vicoli di Pechino. Uomini e donne, una decina, estraggono rifiuti di tutti i tipi da un deposito e caricano il cassone scoperto fino a quattro metri d’altezza. I materiali impilati sono suddivisi, sminuzzati, piegati con perfezione del tutto artigianale. Quando riparte, il veicolo sembra un lumacone con un enorme guscio bombato.
Tre istantanee per descrivere la filiera dei rifiuti a Pechino. Li chiamano jian polan de, alla lettera “quelli che raccolgono gli scarti”. Sono un esercito, spesso invisibile. Si disperdono per la grande metropoli e raccattano tutto il raccattabile, lo portano negli informali centri di raccolta sparsi un po’ ovunque e poi, dopo la differenziazione, la “merce” viene spedita via. Sì, ma dove? Nel 2011 uscì il film Pechino assediata dai rifiuti, un documentario del fotografo Wang Jiuliang. Creò scalpore, tanto che fu visto perfino dall’allora premier Wen Jiabao. Il fotografo/regista si era posto una domanda semplice: dove finiscono i rifiuti? Seguì quindi il carretto di un raccoglitore e finì per percorrere tutta la filiera, in un minuzioso lavoro di indagine che durò dal 2008 al 2011 e che gli fece percorrere 17mila chilometri all’interno della capitale. Scoprì così l’incredibile realtà sia ecologica sia umana delle discariche che circondano Pechino. Erano circa cinquecento, lì finivano i rifiuti raccolti dai jian polan de; spesso si trovavano a pochi metri da zone residenziali o da campi coltivati. Erano quasi tutte illegali o, come si usa dire, “informali”. Nel documentario, si vedono pecore che brucano tranquillamente tra i rifiuti, umani che percorrono montagne di spazzatura a caccia di materiali recuperabili, il liquame che fuoriesce dalle discariche e rientra nel ciclo naturale. È il percolato, che avvelena il suolo e le acque. Un problema non solo per la capitale, ma per tatto il Paese. A Hong Kong, una partita di riso proveniente dalla Cina continentale si è rivelato contaminato da cadmio. La causa, forse, è proprio il percolato.
Il problema fondamentale, a Pechino come in molte città della Cina, è che il lavoro informale dei jian polan de non basta più a smaltire la quantità di spazzatura prodotta dal Dragone consumista. Nella capitale meno del 4 per cento dei rifiuti viene riciclato. Ogni giorno gli oltre 20 milioni di abitanti di Pechino generano 18mila tonnellate di rifiuti, poco meno di un kg pro capite, percentuale inferiore a quella prodotta dagli abitanti delle economie di più antico sviluppo. Secondo i dati della Banca mondiale, le città del pianeta creano circa 1,3 miliardi dì tonnellate di rifiuti solidi Fanno, cioè 1,2 kg al giorno pro capite, quasi la metà dei quali nei Paesi Ocse. Tuttavia, si prevede un aumento a 2,2 miliardi di/tonnellate entro il 2025 -1,4 kg a persona dovuto alla crescita dei rifiuti delle città cinesi che, per quella data, ammonteranno a circa 1,4 miliardi di tonnellate, contro i 520 milioni di oggi. Un problema locale oggi, che in prospettiva diventa un’emergenza globale.
Dopo lo scandalo creato dal documentario di Wang, circa l’ottanta per cento delle discariche illegali attorno a Pechino sono state chiuse. Ora ce ne sono solo 13 ufficiali. Ma il problema è che la spazzatura aumenta sempre più con la crescita della città e dei consumi. Le soluzioni sono due: ridurre la produzione di rifiuti, oppure trovare strumenti di smaltimento più efficienti.
Le autorità puntano in buona parte sulla seconda soluzione, con la costruzione di trecento nuovi inceneritori in tutta la Cina, che dovrebbero entrare in funzione entro il 2015. Ma già s’odono le proteste del nuovo ceto medio, che ha acquistato casa nel compound recintato al sesto anello di Pechino e che scopre improvvisamente di non potere aprire le finestre per via delle tonnellate di spazzatura che vanno in fumo lì accanto. Sono loro la base del consenso per il Partito, la dirigenza comunista non si può tradirli.
Chen Liwen, un’attivista della Ong ambientalista Green Beagle, ha dichiarato a una tv australiana che gli uffici di protezione ambientale dei governi locali si rifiutano di rendere noti i dati sull’impatto dei nuovi inceneritori; ma il “no comment” della nomenklatura oggi non funziona più ed esaspera gli animi. Tra le cause degli oltre centomila “incidenti” che ogni anno scuotono la Cina, le questioni ambientali hanno ormai superato le requisizioni di terre o i conflitti di lavoro.
Si possono fare inceneritori “puliti”, sostiene l’Unido (United nations industriai development organization), ma costano. Servirebbero tecnologie che per ora la Cina non ha, quindi servono i soldi per comprarle dall’estero. Il problema si allarga al sistema fiscale e al rapporto tra centro e periferia. Il governo centrale incassa infatti circa metà delle tasse, ma contribuisce ai servizi sul territorio per il 15 per cento circa. Al resto pensano province, contee e municipalità, che quindi spendono molto più di quanto ricavino dal gettito fiscale e sono perennemente indebitate. Ad oggi, in attesa che si riformi il sistema fiscale, chi deve dunque pagare gli inceneritori “puliti”? Governo o singole autorità locali? La domanda resta aperta.
Torna quindi in auge la soluzione alla radice: riduzione dei rifiuti e raccolta differenziata. La municipalità di Pechino ha di recente aumentato drasticamente la tassa per lo smaltimento dei rifiuti non domestici, portandola da 25 a 300 yuan per tonnellata (da 3 a 36 euro). Con quei soldi, si dovrebbero pagare aziende specializzate nel “waste management” e mandare in pensione i jian polan de, con tutti i problemi sociali che provoca l’improvviso smantellamento di un’economia informale senza il paracadute del welfare. La raccolta differenziata richiede però la collaborazione di tutti e soprattutto spazio: un sacchetto dell’umido qui, un cesto della carta là e così via. Ora, nelle città cinesi la scala delle abitazioni è ridotta, in alcuni quartieri del centro di Pechino l’appartamento media misura tra i 12 e i 20 metri quadri. «Se faccio la raccolta differenziata, esco di casa io», pensano molti cinesi. Ecco perché, finora, i tentativi di importa sono falliti. Anche i cestini della differenziata presenti in strada fin dai primi anni Duemila sono malinconicamente zeppi di rifiuti di ogni sorta.
Oggi, Wang Jiuliang sostiene che il problema riguarda la società consumista nel suo complesso, fatto evidente «quando si vedono enormi discariche di rifiuti di plastica», dice il regista al South China Morning Post. «Se si acquista la carne di maiale in un supermercato, per esempio, si usano involucri di plastica, a differenza dei vecchi tempi, quando era avvolta in un giornale». Come dargli torto. Ma per questo, nella Cina protesa al benessere, non sembra esserci rimedio.