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 2014  febbraio 18 Martedì calendario

I TALENT SONO KARAOKE QUI FACCIAMO VARIET


[Mauro Pagani]

Un direttore musicale col suo talento e la sua esperienza è una risorsa per il Festival. Mauro Pagani, 68 anni, già flautista e violinista nella Premiata Forneria Marconi, indispensabile collaboratore di Fabrizio De André (ha appena terminato i rimissaggi di Crêuza de mäper la riedizione del trentenna-le), ha anche selezionato le canzoni in gara insieme al team di Fazio. «Proprio io che per venticinque anni il Festival non l’ho mai guardato, prima impegnato a fare la rockstar poi, in quelle orrende edizioni degli anni Ottanta, portato a galla dal salvagente che mi aveva lanciato De André. Sanremo era per me uno strano oggetto», esordisce.
Perché allora ha accettato?
«In questo paese tutti si lamentano che le cose vanno male ma nessuno vuole sporcarsi le mani. Se tutti ci impegnassimo un po’ le cose andrebbero meglio. Questa è l’unica settimana in cui la gente per strada parla di musica, diamo alla manifestazione una chance per sopravvivere».
Riaffermati il ruolo centrale dell’artista e il potere della canzone, perché non mandare i giovani di cui lei ha tessuto le lodi in gara con i big, come negli anni Sessanta?
«Non dimentichiamo che Sanremo non è più il festival della canzone italiana ma un varietà televisivo a caccia di ascolti. Il pubblico lo incolli al piccolo schermo solo con i volti conosciuti. La gara uniformata è impensabile, a meno che non si riprenda un cammino di scouting lungo e articolato per addestrare nuovi talenti».
Alcuni pretendono che oggi questo ruolo sia assolto dai talent show.
«I talent sono enormi karaoke dove i concorrenti cantano cover per tutte le puntate e quando poi si arriva all’inedito... beh, lasciamo stare. D’altra parte con la crisi le case discografiche non investono più a lungo termine e le radio non aiutano; ci sono alcuni discografici che fanno ascoltare le canzoni ai programmatori prima di pubblicarle. Se sono i dj a decidere è arrivato il momento che io vada in pensione».
C’è una luce alla fine del tunnel?
«Sì perché la mancanza di denaro scoraggia la prostituzione. Ci sono molti giovani che risparmiano anni per autoprodursi un disco e consegnare il prodotto finito a un’etichetta indipendente. In questo lavoro non ci sono vie di mezzo, o nasci marchettaro o tuteli la tua identità».
Che idea si è fatto del paese attraverso le canzoni che le sono state proposte?
«Che tanti ci provano solo per avere successo, per una smania di visibilità. Ma è il varietà, più delle canzoni, a suggerire l’estetica del paese, un vecchio modo di far televisione che cerca disperatamente di non morire. Sanremo trascina la croce del proprio pregio: essere in grado di parlare a tutti col rischio di diventare impersonale, patetico e consolatorio come certi programmi di compagnia della tv generalista. Il Festival merita un destino migliore, tornare a essere una ribalta internazionale, ad esempio. Invece per troppi anni, come il paese in politica, ha mancato di coraggio. Si vivacchia con l’illusione che tanto una soluzione prima o poi si trova».
Quanto è utile l’apporto di un produttore artistico del suo livello? Ha trasformato Arisa da Paperina a interprete di spessore.
«Chi ha avuto modo di lavorare con i grandi talenti insegna agli artisti a esaltare i propri pregi e a difendersi dai propri difetti. Il mio lavoro è quello di cercare scintille d’identità e di soffiarci sopra fino a farle diventare fuochini, fuocherelli, falò».
Che succederà quando il vostro team abbandonerà il timone (già dal prossimo anno, a quel che si dice)? Riuscirà la Rai a far tesoro di queste due edizioni?
«Viviamo in un mondo pieno di sorprese. Mi aspetto di tutto, anche che la prossima edizione punti tutto sulla reunion di Albano e Romina».