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 2014  febbraio 18 Martedì calendario

A CENA CON LA MAFIA


Sono diventato socio di un club che si chiama “La Mafia”. Ho fatto domanda d’iscrizione, fornito i miei dati personali — nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di cellulare — e messo la mia firma su una scheda. Fra un paio di settimane riceverò anche una tessera, una carta fedeltà. Mi hanno comunque assicurato che già posso considerarmi uno di loro. Sono stato accolto con un sorriso e con queste parole: «Benvenuto nella nostra grande famiglia». Mi hanno detto che siamo più di quarantamila, credo (e spero) di essere l’unico italiano. Per far parte di questo circolo dal nome tanto lurido e sinistro sono dovuto andare in Spagna, prima a Madrid e poi a Saragozza.
Tutto è cominciato domenica 9 febbraio, verso l’ora di pranzo. Uscito dall’aeroporto “Barajas” e mancato uno svincolo sull’autostrada M 30, sono scivolato in un labirinto di strade nel barrio del Pilar e mi sono perso. Viali deserti, uffici e negozi chiusi, neanche una bocadilleria o una cerveceria aperta. Cerrado. Cerrado. Cerrado. Sono così finito nel centro commerciale “La Vaguada” in Avenida Monforte de Lemos 36, quattro piani di luci e musiche, scale mobili, gioiellerie, aria profumata e ventuno ristoranti presi d’assalto da madrileni affamati. In un angolo, accanto a una bella terrazza, ce n’era uno diverso da tutti gli altri.

Sulla vetrina scintillante una rosa rossa e una grande scritta: La Mafia. E sotto, una scritta più piccola: la mafia se sienta a la mesa, la mafia si siede a tavola, cerimonie, comunioni, compleanni. Sono entrato. Alle 14 non c’è un posto libero, bisogna fare la fila. Venti minuti di attesa per noi, altri sono dietro e aspettano quasi un’oradavantialcartellodel“MenùSan Valentino” (la festa degli innamorati o la strage di Chicago del ’29?) e intanto sbirciano dentro, fra quadri con facce di “don” e scene tratte da “Il Padrino”. Sugli schienali delle sedie i nomi dei boss più feroci o famosi dell’epopea di Cosa Nostra: Vito Cascio Ferro, Lucky Luciano, Al Capone, Giuseppe Genco Russo. Il ristorante è invaso da famiglie con bambini, alcuni sono sistemati su seggioloni con il ritratto di un sosia di Vito Corleone che mangia spaghetti. C’è anche la “zona infantil”, giochi, animatrici e un menù “para los Piccolinos de La Mafia” a 8,50 euro. Si offrono caramelle, naturalmente marca “La Mafia”. Anche i piatti sono griffati. Indovinate come. I camerieri tutti vestiti di nero, foto rigorosamente in tema (brutti ceffi), cucina italo-mediterranea, prezzi medi, servizio veloce.
Perché questo ristorante si chiama “La Mafia?”. «Perché qui ne abbiamo tanta», risponde il caposala che mi fa accomodare a un tavolo e spiega che solo a Madrid ce ne sono altri quattro con lo stesso nome e le stesse vetrine, le stesse foto, lo stesso cibo. È una catena in franchising. Trentaquattro in tutta la Spagna, dai Paesi Baschi fino a Gibilterra. Entro il 2015 ne apriranno altri quindici, uno anche in Portogallo. E sempre con quella grande scritta: “La Mafia”.
Pagato il conto — 70 euro per tre, due bistecche, un’insalata, una focaccia, tre bicchieri di vino e due birre — ho chiesto il modulo d’iscrizione per la carta fedeltà. Quando sarò anch’io ufficialmente nella «famiglia» potrò vantare un credito in “Euros La Mafia” del 5 per cento del valore di ogni pasto consumato, verrò sorteggiato per ricevere in premio un iPad2, potrò vincere soggiorni per due persone in alcuni hotel, avere sconti su acquisti in centri benessere «y muchos regalos màs».
Con la scheda compilata e la speranza che mi arriverà al più presto la mia Mafia Fidelity Club ho fatto il giro di tutti gli altri ristoranti gemelli di Madrid. Sono tornato verso l’aeroporto e ne ho trovato uno a San Fernando, in via Calle Pira 14. Qualche chilometro più giù ne ho visto un altro in calle Mahonia 2. Poi un altro ancora fra le 4 Torri fatte costruire dal presidente del Real Florentino Pères sul Paseo de la Castellana 257, a un passo dal monumentale stadio Santiago Bernabèu. È il terzo della lista, l’insegna è gigantesca, centinaia di metri prima si vede solo quello stemma: Mafia. All’interno — fra i Sonny e i Fredo della famiglia Corleone nel film di Coppola — appeso alla parete centrale, ecco la prima pagina di un finto “Secolo d’Italia” con un paio di titoli presi da quotidiani italiani (“I prigionieri scrivono a Caselli” e “Detenuto si accascia in Tribunale”) con relativi articoli rubati a due veri giornalisti siciliani, Dario Broccio e Lara Sirignano. Se ci fosse un mio articolo lì, mi arrabbierei un po’.
L’ultimo ristorante “La Mafia” l’ho visitato di sera, davanti alla fermata della metro Cuzco, in via Sor Angela de la Cruz 8. Ha apertoil22agostodell’annoscorso.Unaltro sarà inaugurato fra qualche mese in Plaza de Colon, il cuore della capitale.
Nella Spagna piegata dalla depressione, contaminata in ogni sua regione da investimenti e insediamenti di ’ndrangheta e camorra (i Barbaro di Platì ad Algeciras, la cosca Trimboli a Malaga, i Piromalli a Barcellona, l’Alleanza di Secondigliano a Badalona, il clan Alfonso a Toledo, i Sergi e i Morabito di Africo a Madrid), questi ristoranti non conoscono crisi. «La mafia crea empleo», la mafia crea lavoro, è uno degli slogan preferiti del franchising, 400 dipendenti, dai 300 ai 400mila euro per aprire un nuovo locale ad Alicante o a Marbella, una sede centrale a Saragozza e il progetto di diventare sempre più grandi. Mafia, un brand che non delude mai.
A denunciare per primo l’esistenza di questa catena che salda il crimine alla cucina italiana è stato Mauro Fossati, uno studente della Statale di Milano che nel 2012 ha presentato al professore Nando dalla Chiesa una tesi su “Il caso dei ristoranti La Mafia in Spagna”. In 111 pagine l’analisi di un’avventura imprenditoriale che sfrutta le gesta dei boss più sanguinari per arricchirsi ed espandersi, puntando tanto sull’idea di famiglia. «Come buoni mafiosi pensiamo che sia la cosa più importante», scrivono nella loro brochure. Molto marketing e pochi scrupoli.
Il primo “La Mafia” l’hanno battezzato nel 2000 a Saragozza, la città dove ci sono ancora due ristoranti con quel logo e c’è anche «la cabeza pensante de La Mafia», le Oficinas Centrales della premiata ditta.
Saragozza, stazione Delicias, ufficio del turismo. «Sì lo so che qui ci sono ristoranti “La Mafia”, so anche che non è molto carino per voi italiani», risponde la ragazza al desk prima di indicarmi come arrivare in Paseo Indipendencia, gli uffici de “La Mafia” ospitati in un altro grande centro commerciale.
La solita vetrata e la solita scritta con una mastodontica M, il responsabile della Comunicazione Pablo Martinez che mi accoglie mostrandomi la maglia gialla di Alberto Contador («Partecipiamo attivamente alla sua fondazione contro l’ictus») e mi parla del denaro che “La Mafia” versa ogni anno per i bambini di un orfanotrofio in Nepal. Sostengono con il loro patrocinio anche gare di atletica, il “GP La Mafia”, insieme al Comune di Saragozza. Fra gli sponsor la Coca Cola e il governo di Aragona. Complimenti.
Due erano i proprietari nel 2001, oggi è rimasto solo Javier Floristan con una fabbrica che elabora le materie prime importate dall’Italia — salsa, semola, farina — e quella schiera di ristoranti che spuntano vertiginosamente in tutta la Spagna. A Floristan l’ispirazione è venuta dopo avere letto a fine anni ’90 “La Mafia a tavola”, un libro di due francesi, Jaques Kermoal e Martine Bartolomei, 55 ricette di anedottica gastronomica-mafiosa. E dopo un viaggio in Sicilia per studiare la cucina isolana. Così è nato il primo “La Mafia”. Il boom fra il 2008 e il 2009, quando la recessione ha cominciato a far piangere gli spagnoli. «In tempo di crisi noi siamo cresciuti di più», garantisce Pablo Martinez. E dice: «La parola mafia è un riconoscimento di marchio assoluto, è una chiamata d’attenzione, tutti si ricordano di quel nome». E spiega: «Non l’abbiamo creato noi, lo utilizziamo soltanto. Ma da noi sono proibite immagini di violenza, i mafiosi sono presi in prestito dal cinema, tutto è ispirato a Il Padrino, l’unica nostra arma è la rosa rossa». Avete mai pensato di cambiare nome? «Sì, ma al momento non è fattibile, chiedo scusa agli italiani se si sentono offesi però non era nelle nostre intenzioni». Promette che, prima o poi, cancelleranno anche quei riferimenti ai boss veri che danno un «tocco» realistico ai loro locali. Il business deve continuare.
Proteste? «Solo su qualche blog italiano », racconta Martinez. Nulla di ufficiale. Mai una rimostranza formale della nostra ambasciata, mai un ministro degli Esteri che abbia alzato la voce per quel segno infame usato tanto sfrontatamente. Tutto normale.
Immaginate cosa succederebbe in Spagna se qualcuno, in Italia, aprisse un paio di trattorie dedicate ai terroristi dell’Eta. O cosa accadrebbe in Germania, se a Roma o Milano, inaugurassero tre birrerie con wurstel e crauti serviti in onore delle vecchie glorie della Rote Armee Fraktion, le brigate rosse tedesche. Ma la mafia è la mafia. A qualcuno fa sempre comodo. In ogni parte del mondo. Lo dicono loro, sul sito: «È un’eccellente immagine che ha come obiettivo diventare un lovemark internazionale ». Cos’è un lovermark? Qualcosa che ha un valore emotivo capace di ispirare sensazioni positive nel tempo, qualcosa che sa di amore, che arriva diritto al cuore. Cosa altro, meglio della mafia?