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 2014  febbraio 18 Martedì calendario

TRA IMPACCI E IRONIA LA SVOLTA ISTITUZIONALE DEL MATTEO INCARICATO


FRA le caratteristiche di Matteo Renzi, oltre alla giovinezza, all’energia, all’amore per il rischio e via celebrando, vengono comunemente annoverate un’indubbia capacità comunicativa, un linguaggio al tempo stesso molto vivace e molto chiaro e infine una certa naturale spontaneità.
Ecco dunque che ieri mattina, una volta uscito dalla fatidica porta- sipario dello Studio alla vetrata, lo si è visto affrontare la prova più inconfessabilmente impegnativa per un leader incaricato: quella che mette in causa le sue qualità attoriali, e quindi la sua abilità — o meno — a entrare in una parte e a recitarla in modo convincente dinanzi a fari, sguardi, flash e telecamere di mezzo mondo, per giunta su un palcoscenico che non è, né mai sarà il suo.
Ebbene ieri Renzi, onestamente, è andato così così. Per non dire maluccio. Nel senso che l’indispensabile metamorfosi del potere, il cambio di rango e di funzione si sono visti troppo e insieme troppo poco. Con il che l’imminente premier è apparso abbastanza irriconoscibile. Detta in modo un po’ brutale: né carne né pesce.
E’ un giudizio che va al di là della politica spettacolo, della quale il Sindaco rimane un innovatore e un fuoriclasse, e parecchio ha invece a che fare con le premesse, i parametri e le atmosfere dei luoghi istituzionali. I quali luoghi egli conosce quasi per nulla e che pure — anche ieri s’è capito da sintomatiche occhiate e contrazioni del volto — vorrebbe senz’altro e quanto prima «rivoltare come un calzino». Ma intanto il Quirinale è il Quirinale e se non suonasse acidamente scolastico, si potrebbe dire che il ragazzo deve ancora studiare e fare anche un po’ di pratica, oppure trovarsi qualcuno, un Antonio Maccanico, un Giuliano Amato o un Gianni Letta per intendersi, che gli dia ripetizioni.
Che fosse emozionato, diamine, lo si può anche capire. Che con quel completino scuro da ometto perda parecchio appeal, come direbbe lui, è anche scontato. I pantaloni «a cica», d’altra parte, e la camicia bianca di Scervino sono per Renzi come una seconda pelle, comunque la più riconoscibile ed efficace uniforme. Si narra che Craxi, nel 1979, salì sul Colle per ricevere l’incarico in jeans e Pertini lo cacciò via. Dunque non è che Renzi potesse presentarsi nel modo in cui milioni di italiani hanno ormai imparato a identificarlo.
Vero è che poco prima delle feste natalizie, appena eletto, si presentò al Quirinale per la cerimonia degli auguri con un abito grigio chiaro, un po’ da astronauta. Apriti cielo! Non che passasse proprio inosservato, ma da quella platea di rigorosissime grisaglie il gap cromatico fu ritenuto uno sgarbo assai grave. Inoltre, finiti i discorsi, il nuovo segretario del Pd sgattaiolò via all’inglese, ricusando il buffet — e anche questo venne vissuto come gratuita maleducazione, con sospetta aggravante anti-casta. (Renzi ha poi fatto autocritica, sembra di ricordare alle Invasioni barbariche, in smagliante tenuta Scervino).
Vabbe’ l’abituccio e l’emozione, che può anche fare tenerezza. Ma è soprattutto su quel che ha detto, e ancor più su come l’ha detto, che il giovane incaricato non è riuscito a entrare nella parte. Come minimo ingenuo, nell’esordio: «il signor Presidente della Repubblica »; e fin troppo paludato, per come si conosce il Renzi style, il seguito: «mi ha rappresentato in modo ampio e articolato», che non è da lui. Piuttosto forzato quel «si colloca sull’orizzonte naturale previsto dalla Costituzione»; irrimediabilmente vetusto «l’arco costituzionale», che magari aveva un senso ai tempi del Msi, ma oggi rimanda alla più straniante archeologia politichese — o forse c’entravano i cinquestelle, nel qual caso sarebbe anche peggio.
Nel complesso, rispetto alle abituali prestazioni renziane, la recita «istituzionale» del più evoluto attore politico si è risolta a un livello non troppo superiore a quello di una filodrammatica. E seppure un domani questi quattro minuti saranno forse ricordati per l’annuncio di quattro riforme di grandissima importanza, sul terreno delle forme, pur così importanti al giorno d’oggi, è suonato decisamente bizzarro e anche misterioso quel dispiego di prime persone plurali tipo: «incontreremo », «discuteremo», «ci diamo», «ci prendiamo», «ci siamo prefissi ». Noi chi, veniva da chiedersi: io e Napolitano? io e i ministri? — che però ancora non ci sono. O era plurale majestatis?
Così, solo sui tre quarti della performance, è arrivata la zampata e per qualche istante Renzi è tornato a essere se stesso. Dunque sicuro e tagliente. Allorché, facendosi precedere dalla stessa ironica formula — «Sono solidale con voi» — con cui aveva polemizzato con i giornalisti che un paio di settimane fa avevano dato notizia delle merende Eataly distribuite ai componenti della segreteria del Pd, il premier ha buttato lì: «Mi sono venuto a noia da solo, leggendovi ». Non male infine l’ultima parola, dedicata alla «rassegnazione ». Ma qui la questione è davvero grossa e non è detto che a combatterla per davvero non si debba, a partire da Renzi, rinunciare a effetti speciali e consumata retorica.