Daniele Martini, Il Fatto Quotidiano 18/2/2014, 18 febbraio 2014
LA STORIA DEL PONTE CHE NON FINISCE MAI DI STUPIRE MILIONI DI EURO SPRECATI SULLO STRETTO DI MESSINA
All’ingresso la targa con su scritto Ponte sullo Stretto di Messina risplende come se l’avessero imbullonata un attimo prima. Al quarto piano, nel palazzone che sovrasta la stazione Termini correndo perpendicolare ai binari, le 54 stanze, sale e uffici che ospitavano dirigenti e impiegati sono inesorabilmente vuoti. Un deserto che costa ancora caro ai contribuenti italiani: più di un milione e mezzo di euro l’anno solo d’affitto. Paga l’Anas, azienda statale delle strade che con l’81,3 per cento è proprietaria della società, incassa Grandi stazioni delle Ferrovie, Benetton, Pirelli e Caltagirone. Quello dell’affitto non è l’unico regalino che il fantasma del Ponte ha lasciato per ricordo agli italiani. Da dipanare c’è un enorme contenzioso legale con le aziende, da Eurolink-Impregilo a Parsons, a cui fu fatto balenare il miraggio della costruzione della grande opera e che lamentano danni per quasi 800 milioni di euro. E c’è ancora da definire la gestione liquidatoria affidata 10 mesi fa al più potente, riservato e misterioso dei mandarini della burocrazia statale: Vincenzo Fortunato. Sulla carta e in base alla legge la missione di Fortunato dovrebbe finire a metà maggio. Ma pochi credono che quella data verrà rispettata davvero e ora sarà interessante vedere come gli uomini nuovi di Matteo Renzi sapranno misurarsi con lui.
ADDITATO DAI LODATORI come esempio di terzietà burocratica e dai detrattori come incarnazione di un trasversalismo amministrativo così influente da portare al guinzaglio la politica, figlio d’arte (suo padre Pietro fu capo di gabinetto di Emilio Colombo, svariate volte ministro democristiano e anche capo del governo nella Prima Repubblica), Fortunato alla caduta del governo Monti aveva dovuto lasciare di malavoglia le stanze governative dove aveva comandato fianco a fianco con ministri di tutti i tipi: Augusto Fantozzi, Franco Gallo, Vincenzo Visco, Ottaviano Del Turco, Antonio Di Pietro, Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli. Uscito da quegli uffici dorati, non sarebbe rimasto con le mani in mano anche se non gli avessero affidato nuovi incarichi perché tra le poltrone che occupa c’è anche quella di presidente di Invimit, la società pubblica che dovrebbe vendere un bel po’ del patrimonio immobiliare dello Stato. In più, nei ritagli di tempo dovrebbe pure insegnare alla scuola Vanoni di finanza e alla Scuola superiore per la pubblica amministrazione. Alla Invimit dicono che però Fortunato soffra molto il dinamismo dell’amministratrice Elisabetta Spitz, e di accontentarsi delle docenze neanche a parlarne. Così gli hanno dato da seguire l’agonia del Ponte di Messina, un incarico per cui lo ricompensano con 56.400 euro. Non uno di più, come informa lui stesso in una nota al Fatto , precisando che deve considerare gli altri stipendi che si mette in tasca e che non vuole sforare il tetto di 300 mila euro delle retribuzioni dei dirigenti pubblici. In mano a Fortunato, il Ponte sembra uscito dai radar, inghiottito da quella riservatezza di cui il gran burocrate è sacerdote. Si sa che i vecchi amministratori non sono più in carica mentre gli uffici di Messina sono stati sprangati e i 56 dipendenti delle sedi siciliana e romana ricollocati in altre strutture dell’Anas. Con Fortunato continuano a lavorare 14 persone in “posizione di comando”.
PRIMA CHE SU TUTTA la storia possa essere scritta la parola fine ne passerà comunque di tempo. Solo il gruppo Fenice cui era stato affidato il compito di monitoraggio ambientale dell’area ha accettato l’indennizzo messo sul piatto dal commissario. Eurolink-Impregilo, invece, ha avviato due azioni legali, una al Tar e una in sede civile a Roma e vorrebbe un risarcimento di 700 milioni di euro per l’incomodo della mancata costruzione dell’opera. E pure la società di progettazione Parsons non ritiene sufficiente l’indennizzo proposto da Fortunato: vorrebbe 58 milioni di euro.