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 2014  febbraio 18 Martedì calendario

UNO STUDIOSO NEL DESERTO DELLA SINISTRA


Lo scherzo non gli è piaciuto. Chi lo conosce bene dice che si sta mordendo le mani per essere caduto nella rete della Zanzara come un pivellino. Trappole della giungla dei mass media, un mondo feroce che Fabrizio Barca conosce poco e frequenta peggio. L’uomo è antitelevisivo e odia la politica ridotta a spettacolino da talk-show-spazzatura. Meglio i libri, l’economia, gli studi. Quel mondo sì, l’economista Barca lo conosce bene. In quel mondo è nato e cresciuto. “La sinistra è fatica”, si diceva una volta. E quella sinistra, quella politica speciale, fatta di analisi rigorose che poco e male si accompagnano alle battute a effetto, ai tweet, ai post, sono stati per anni la sua vita.
UNA CASA PIENA DI LIBRI, quella del papà Luciano (partigiano, dirigente comunista, direttore de l’Unità), tomi e riviste d’acciaio. Rinascita, Critica marxista, Politica ed Economia. I partiti producevano cultura una volta. Per questo, appena presa la tessera del Partito democratico, e iniziata l’impossibile impresa della conquista dei vertici, lancia lo slogan della “mobilitazione cognitiva”. Una frase che avrebbe stroncato un toro. Il partito è liquido, “americano”, evanescente. Lo hanno costruito così. Una macchina da primarie, con gruppi, correnti e sottogruppi. “Giovani turchi” e vecchi apparati, “rottamatori” e conservatori del potere che fu. Tutti in lotta tra di loro. Un mare agitatissimo nel quale l’economista Barca è un pesce fuor d’acqua. Gira per le sezioni, che nel frattempo hanno cambiato nome e si chiamano circoli. È il suo “Viaggio in Italia”. Una delusione. “Ma dove sono gli operai?”, si chiede. Non ci sono più, quei pochi che ancora resistono nelle fabbriche non frequentano il Pd. La politica non li vuole, li ritiene un ingombro, un orpello del passato. Paghino due euro e votino alle primarie. L’amarezza è tanta, l’analisi spietata: “La sinistra è un deserto di cultura politica”, scrive in un articolo. Difficile dargli torto. Anche il linguaggio del professore (Barca ha insegnato in varie università) è anomalo. Fuori tempo. A tratti incomprensibile. Nel suo “Manifesto per il buongoverno” getta nel panico militanti e dirigenti parlando di “catoblepismo”. Termine difficile, comprensibile solo a raffinati economisti. Si spiega: “Si tratta dell’espressione e del neologismo usati nel 1962 da Raffaele Mattioli per indicare il legame perverso prodottosi in Italia alla vigilia della crisi 1930-1931 fra grandi banche italiane di credito ordinario e industria”. Al Nazareno capirono in pochi. In molti sorrisero leggendo poi di “monitoraggio in itinere” e, peggio ancora, di “disintermediazione”. Fabrizio Barca è stato un “anomalo” anche da ministro per la Coesione territoriale del governo Monti. Nel paese frantumato da vent’anni di leghismi, lui se ne va a L’Aquila a parlare con i terremotati sfiancati dalle promesse di Berlusconi. Oppure, in pure spirito desanctisiano, si spinge fino a Bisaccia, quattro case nell’Irpinia d’Oriente, per conversare col suo amico scrittore Franco Arminio, paesologo e sognatore, di sviluppo e riequilibrio Nord e Sud. Pensieri fuori tempo per un personaggio che della sua diversità e del rifiuto della semplificazione della politica ha fatto la sua cifra. In tanti bramano per una poltrona da ministro, tantissimi sgomitano per salire sull’utilitaria del vincitore Renzi. Fabrizio Barca no. Perché “siamo agli slogan, non c’è un’idea. Non possono pretendere che le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri, alla propria cultura. Quindi...sono stato proprio chiarissimo ...evitiamo che nasca una cosa alla quale vengo forzato”. Lo ha detto a un finto Nichi Vendola. Era uno scherzo. Sta diventando una cosa maledettamente seria.