Tino Oldani, ItaliaOggi 18/2/2014, 18 febbraio 2014
IL PRESIDENTE DI POSTE (600 MILA EURO) È UN EX SINDACALISTA, PRENDE IL TRIPLO DELL’OMOLOGO INGLESE. INDENNITÀ DI MERITO SEMPRE AL MASSIMO
Mentre sui giornali impazza il toto-nomine, con la solita girandola di candidati veri o presunti alle poltrone di comando delle aziende di Stato (Eni e Poste in testa), i consiglieri più ascoltati del premier incaricato, Matteo Renzi, si occupano di ben altro. Più che alle poltrone da occupare, stanno pensando a quelle da tagliare. L’obiettivo è far capire che, con Renzi al governo, sta per finire l’epoca in cui il premier si serviva delle aziende di Stato per sistemare i manager amici, o gli amici degli amici, a prescindere dalla competenza e dal merito. Non solo. Se si escludono poche aziende pubbliche davvero valide e competitive, la maggior parte delle altre non riveste alcuna attrattiva per il mercato: per questo, nei loro confronti, più che di privatizzazioni, si dovrebbe parlare di liquidazione.
Questa, almeno, è la conclusione del terzo studio che l’economista Roberto Perotti, docente alla Bocconi, nonché coordinatore di una commissione di studio sulla spesa pubblica per incarico di Renzi, ha dedicato al management delle società pubbliche, dopo quelli sugli ambasciatori e sui super-burocrati ministeriali (vedi Italia Oggi del 13 e del 15 febbraio).
Sotto la lente di Perotti, questa volta, sono finite le 29 società controllate dal ministero dell’Economia, e la prima voce presa in considerazione è quella degli stipendi, che assommano a 13,5 milioni di euro per tutte le società considerate. Retribuzioni «giuste»? si chiede Perotti.
Per le retribuzioni dei manager delle aziende pubbliche, sostiene il consigliere di Renzi, il concetto di «giusta» retribuzione deve tenere conto di alcune variabili. Se la società pubblica è in perdita, non necessariamente il suo management deve essere considerato incapace: se il fatturato dipende da tariffe imposte dalla politica, è chiaro che la responsabilità è altrove. Del pari, se la società è in utile, non significa che il suo management sia capace, perché spesso le società pubbliche operano in regime di monopolio o sono sussidiate dallo Stato. Non solo: uno stipendio elevato non è di per sé scandaloso, specie se il manager pubblico ha un mercato anche nel settore privato. Ma, fissati questi paletti di puro buon senso, Perotti comincia a scavare, e le anomalie emerse parlano da sole.
Sui 13,5 milioni di stipendi erogati per i vertici delle 29 società controllate dal Tesoro, ben 1,8 milioni corrispondono alla cosiddetta «parte variabile», vale a dire al merito. E nelle aziende dove questa voce retributiva è presente, «non uno dei manager ha percepito meno del massimo possibile». Dunque, una premialità del merito ridotta a pura finzione, pur di gonfiare stipendi già robusti. Tra questi, Perotti esamina quelli del presidente e dell’amministratore delegato delle Poste, ponendoli a confronto con quelli dei parigrado del Royal Mail, il servizio postale inglese, che ha un fatturato simile a quello delle poste italiane (10,7 miliardi contro i nostri 9,2). L’ad delle Poste italiane prende un milione e mezzo di euro l’anno, un po’ meno del suo collega inglese (1,7 milioni). Ma il presidente italiano delle Poste, con 600 mila euro, prende quasi il triplo del suo pari grado inglese, e ciò non si deve affatto alla sua competenza, bensì al fatto che «ha fatto tutta la sua carriera da sindacalista della Cisl», sindacato da sempre maggioritario tra i lavoratori delle Poste. Dunque, un caso di clientelismo, che trova altrettante conferme se si esaminano anche i curricula dei tre consiglieri amministrazione delle Poste, tutti nominati in base ad amicizie politiche. «Chi parla (impropriamente) di privatizzazione delle Poste» scrive Perotti «dovrebbe chiedersi se un privato possa permettersi di investire in una società con una corporate governance così pericolosa».
Perotti passa in rassegna varie aziende pubbliche, dove i manager di vertice sono pagati più di quelli inglesi. Tra questi, vi è l’ad e presidente della Zecca di Stato, che prende il triplo del suo collega inglese. Vi è poi il caso della Coni Servizi, che Perotti definisce con ironia «uno dei più grandi capolavori della finanza pubblica italiana». Creata nel 2002 per «mettere fuori bilancio (cioè nascondere) alcuni dei costi del Coni, ha generato a sua volta solo ulteriori debiti». Per molti anni (e fino a pochi mesi fa) il presidente e l’ad di Coni Servizi sono stati Giovanni Petrucci e Raffaele Pagnozzi, che erano rispettivamente presidente e segretario generale del Coni. «Un modo semplice, ma non molto sottile» commenta Perotti «per aggiungere uno stipendio, che nel 2012 è stato di 194 mila e di 336 mila euro rispettivamente».
Dalla Coni Servizi, additata come modello di inutilità, lo studio del consigliere di Renzi passa all’individuazione di altre società pubbliche da liquidare al più presto per manifesta assurdità. Due spiccano su tutte: la prima si chiama «Studiare Sviluppo», la seconda «Italia Lavoro». A che cosa serve «Studiare Sviluppo»? Per lo stesso scopo, nota Perotti, «vi sono già un ministero specifico, più di 20 assessorati regionali e decine di altre società pubbliche, a cominciare da Invitalia e dalle varie Sviluppo Italia regionali». Non solo. La ricerca del docente bocconiano quasi si diverte a elencare le ricerche programmate da «Studiare Sviluppo», che non sono niente altro che il doppione di altri studi prodotti da tre ministeri, venti Regioni e decine di enti. Insomma, uno spreco di denaro pubblico, ma molto ben retribuito: l’ad di Studiare Sviluppo prende 261.771 euro. Ovvero 20 mila euro in più dell’ad di Italia Lavoro, che altro non è che una delle decine di enti pubblici che si occupano di lavoro, formazione, politiche attive e inserimento, con i risultati ben noti: disoccupazione alle stelle, e sopra il 41% in quella giovanile. Cambierà qualcosa con Renzi al governo? Lo vedremo presto.