Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 18/2/2014, 18 febbraio 2014
LA TAGLIOLA È LA SPESA PER INTERESSI
Far ripartire l’economia. Questo l’obiettivo principale della manovra shock da mille miliardi elaborata dagli economisti de «L’Italia c’è» e lanciata sulla copertina di Milano Finanza in edicola (vedere tabella a pagina 3). Una manovra quanto mai indispensabile se è vero che il lavoro è la priorità dichiarata del premier incaricato Matteo Renzi. La Confindustria ha chiesto invano di abbattere il cuneo fiscale di almeno 10 miliardi, per mettere più soldi in busta paga e sostenere la domanda interna. La strada verso un maggior deficit di bilancio, sforare il 3% del pil, è però sbarrata: non solo da Bruxelles, ma dalla logica, visto che il debito pubblico italiano ha già superato a fine 2013 il 133% del pil, accrescendosi di circa 93 miliardi rispetto all’anno precedente.
Il cuneo fiscale non si riduce aumentando le imposte ma intervenendo sul fattore che lo determina: la spesa per interessi che drena risorse all’economia reale, attraverso la tassazione, per remunerare un debito pubblico oltremodo elevato. Se poi si considera che la tassazione delle rendite finanziarie incide sulla loro dimensione netta lasciandola invariata, è facile desumerne che ormai siamo alla partita di giro: si prelevano risorse agli investitori, in quanto percettori di rendite, per poterle remunerare.
La spesa pubblica va ridotta nel contesto di una complessiva riorganizzazione istituzionale. Basta fare un raffronto con gli altri Paesi europei per rendersi conto che il debito pubblico è il fulcro su cui si deve fare leva. Nel periodo 2007-2013, la Francia ha accumulato 699,8 miliardi di nuovo debito, la Germania 588,1 miliardi e l’Italia 435,4 miliardi. Nel complesso, la Francia è arrivata a uno stock di debito pari a 1.911,4 miliardi, la Germania a 2.176,4 miliardi e l’Italia a 2.040,5.
Il punto decisivo, per comprendere l’importanza dell’abbattimento del debito italiano, è rappresentato dalla spesa per gli interessi: sempre nel periodo 2007-2013, la Francia ha pagato 331,8 miliardi, mentre la Germania ha messo mano al portafogli dei propri cittadini per l’importo di 391,3 miliardi. Il costo per i contribuenti italiani è stato assai più elevato: 522,6 miliardi. Visto che il pil nominale italiano nel 2013 è stato di 1.557 miliardi e il debito di circa 2.040 miliardi, è come se in sette anni avessimo pagato per interessi una somma pari a un terzo del pil e a un quarto dell’intero debito.
Occorre tener conto inoltre del danno provocato all’economia da una politica di bilancio basata sulla creazione di un avanzo primario annuale realizzato attraverso l’aumento delle entrate fiscali e la riduzione delle spese pubbliche in un contesto di recessione e di elevati tassi di interesse: dal 2007 al 2013, la Francia ha accumulato un risparmio primario negativo di 338 miliardi, mentre la Germania ha realizzato un saldo positivo di 194 miliardi. L’Italia ha registrato un saldo positivo di 161 miliardi. Ciononostante, il debito italiano è cresciuto in valori assoluti e in rapporto al pil, che è diminuito. Solo Germania e Italia, tra l’altro, in tutta Europa, hanno avuto saldi positivi, ma l’Italia è stata penalizzata dall’enorme debito pubblico di partenza: è la zavorra che ci manda a fondo appena un onda increspa il mare dei mercati.
Gran parte dei sacrifici dei contribuenti italiani sono serviti innanzitutto a remunerare il debito pubblico, che alla fine del terzo trimestre del 2013 era detenuto dall’estero solo per 746 miliardi, una somma pari al 36,6% dei titoli in circolazione. Con un calcolo fatto a spanne, degli 80 miliardi spesi nel 2013 per il servizio del debito pubblico, circa 29 sono andati agli investitori esteri e 51 a quelli italiani. Questa è la grande redistribuzione che viene realizzata attraverso la rendita sul debito pubblico.
In Italia c’è una gigantesca manomorta pubblica, un patrimonio mobiliare e immobiliare che va messo a frutto, senza svenderlo: ha un potenziale di valorizzazione pressoché inesplorato, che per emergere ha bisogno di amministrazione oculata e di tempo.
Per tagliare subito il cuneo fiscale bisogna intervenire su quello finanziario, riducendo il debito e di conseguenza gli interessi, senza svenare l’economia reale e senza farsi abbagliare dai buoni risultati della bilancia dei pagamenti correnti: se nel 2013 il saldo commerciale è stato positivo per oltre 20 miliardi, i flussi sottostanti non sono consolanti visto che l’indice delle esportazioni (anno 2005 = 100) è stato ancora pari a 99,7, mentre l’import è caduto a 83,7. La deflazione interna ha abbattuto la domanda e le importazioni, ma le esportazioni sono inchiodate dov’erano.
Serve una politica dell’offerta, di investimenti in innovazione e produttività, altrimenti il taglio del cuneo fiscale potrebbe rivelarsi una nuova beffa, come la strategia della concertazione inaugurata a partire dal ’93. Se allora la strategia fu quella di tenere bassi i salari per aumentare la competitività senza fare investimenti, stavolta si rischia di aumentare la domanda interna senza nessun incremento di produttività. Il taglio del debito pubblico non è la soluzione ma il presupposto, ormai indispensabile, per avviare finalmente una fase di sviluppo.