Andrea Laffranchi, Corriere della Sera 18/2/2014, 18 febbraio 2014
MIO FIGLIO MI PORTÒ UNA CHITARRA COSÌ DECISI DI TORNARE SUL PALCO
Padre e figlio. «Father and son». Quel figlio nel frattempo è diventato padre. Anzi, da qualche mese nonno per la quinta volta. Ma anche se la barba e capelli sono bianchi, Cat Stevens questa sera all’Ariston tornerà ad essere la voce di quel dialogo a due fra generazioni che non si capiscono.
Non ha un disco in promozione. E nemmeno un tour. Il cantautore inglese ha sì un album in lavorazione, e nei prossimi giorni sarà in Belgio per il missaggio, ma ancora non c’è una data di pubblicazione. L’invito al Festival è un «capriccio» di Fabio Fazio e degli autori. «Sono in imbarazzo perché devo cantare davanti a Cat Stevens», ha sussurrato ieri il conduttore mentre provava il numero con Laetitia Casta sotto gli occhi del suo preferito seduto in platea. Generazione cresciuta negli anni Settanta quella di Fazio, che ha consumato album come «Tea for The Tillerman» e «Teaser and the Firecat». E la presenza di Cat Stevens in un certo senso nobilita la linea scelta sugli ospiti stranieri con cantautori come Damien Rice e Paolo Nutini. Il conduttore l’avrebbe voluto già l’anno scorso, ma l’inseguimento non era andato a buon fine. Richieste, esigenze e agende si sono incastrate per questa edizione.
L’uomo dai quattro nomi. Nato nel 1948 come Steven Giorgiou, scelse Cat Stevens come nome d’arte per poi diventare nel 1978 Yusuf Islam con la conversione all’Islam. Era una star mondiale, milioni di dischi venduti nel mondo e una voce inconfondibile, e cambiò vita all’improvviso. Mollò la carriera e nel 1979, con un gesto simbolico, mise tutte le sue chitarre all’asta. E cominciò una seconda vita dedicata alla diffusione dell’islam. «Da ragazzo la musica era la mia religione. Ero un sognatore alla ricerca della verità. Quando ho scoperto per caso il Corano ho capito che tutte le risposte di cui avevo bisogno erano lì dentro», ha spiegato un paio d’anni fa in un’intervista ad Al Jazeera. Basta con la musica, vista con sospetto da una parte del mondo islamico, l’impegno di Yusuf si riversò sul sostegno di scuole e associazioni musulmane.
Cosa che, sommata ad alcune dichiarazioni (poi corrette) che sembravano giustificare la fatwa e la condanna a morte degli integralisti contro Salman Rushdie, gli hanno creato qualche problema e l’iscrizione in una lista di persone non desiderate dagli Stati Uniti che in passato gli hanno anche negato l’ingresso nel Paese. Nel 2001 l’attacco alla Torri Gemelle lo riavvicina alla musica: per uno show televisivo in onda su VH1 canta «Peace Train». Nel 2006 il suo primo disco dopo tre decenni, «An Other Cup», seguito nel 2009 da «Roadsinger» e dalla messa in scena nel 2012 del musical «Moonshadow». «È stato mio figlio a riportare una chitarra in casa. Quando l’ho imbracciata ho capito all’istante che avevo un altro lavoro da fare — aveva detto sempre in quell’intervista —. Lui non ha detto nulla, ha messo semplicemente lì lo strumento e mi sono stupito che le mie dita si ricordassero dove andare». Padre e figlio, ma questa volta il dialogo ha fatto miracoli.
Yusuf Cat Stevens, così si fa chiamare adesso, è arrivato ieri a attorno a mezzogiorno. Volo di linea da Dubai, vive lì da qualche anno, e atterraggio a Nizza. Trasferimento in hotel, pranzo leggero a base di spaghetti al pesce, nel pomeriggio una passeggiata sul mare e in serata una visita all’Ariston per chiarire gli ultimi dettagli sulla sua esibizione. Questa sera farà una chiacchierata con Fazio e tre canzoni. «Father and Son», ovviamente. Questa è stata l’unica condizione-richiesta posta dal Festival. La farà in versione voce e chitarra. Allo stesso modo presenterà un inedito. Quindi «Peace Train», questa con l’orchestra ad accompagnarlo. E grazie ancora al figlio.
Andrea Laffranchi