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 2014  febbraio 12 Mercoledì calendario

ALL’UNITÀ HO CAPITO IL VALORE DELLE PAROLE


Sono entrato all’Unità nella primavera del 1976. Avevo ventuno anni, sapevo pochissimo della vita e delle persone, nel brutto palazzo milanese di viale Fulvio Testi ho imparato, dai miei indimenticabili compagni di allora, quasi tutto quello che so.
Tutti i giornali, all’epoca, erano un riassunto piuttosto efficace della società: erano al tempo stesso una fabbrica, un ufficio, una scuola, un laboratorio culturale. C’erano gli operai, gli impiegati, i giornalisti, gli scrittori. Il lavoro manuale e quello intellettuale in stretta simbiosi. Nel suo sottofondo scuro e rovente, con la fusione a caldo, il rombo delle rotative, i tipografi inchiostrati e bruschi che mettevano fretta ai giornalisti cacadubbi perché “bisogna chiudere il giornale”, l’Unità sprigionava un’energia antica: meccanica, industriale e ottocentesca. Ai piani alti, nel chiarore della redazione, stava già arrivando il Duemila: la macchina per scrivere e la telescrivente vivevano la loro febbrile agonia in vista della radicale rivoluzione che avrebbe ucciso la parola metalmeccanica, quella che scaturiva dalle righe di piombo, in favore della parola digitale.
Per capire quale meraviglioso passaggio d’epoca abbiano vissuto i giornalisti della mia generazione, va detto che tra la stampa degli anni Settanta e il torchio di Gutenberg c’è assai meno distanza tecnologica e produttiva che tra la stampa degli anni Settanta e quella di adesso. Pure, ciò che non è cambiato, né sembra soggetto a poter essere cambiato da alcun rivolgimento tecnologico o culturale, è l’ingrediente di base del giornalismo: la parola. Come una farina non surrogabile da alcun ogm, la parola rimane al tempo stesso il mezzo e il fine di qualunque giornale, anzi di qualunque medium, compreso il nervoso compitare dei social network.

In quella Unità così remota nel tempo (non esiste più neanche il palazzo, in viale Fulvio Testi: al suo posto, uno perfino più brutto) si disputava, attorno alle parole, per intere giornate, serate, nottate. La verbosità di scuola comunista (Gesù, quanto parlavano nelle assemblee e nelle riunioni quegli uomini e quelle donne) era una macchina inarrestabile, più potente perfino delle rotative. Ma a quella ossessione per la parola, a quella cura quasi feticista per il nero su bianco, per il testo che mette ordine nelle cose, spicca dal caos, lo orienta, io devo tutto ciò che so e tutto ciò che possiedo. E sono sicuro, sicurissimo, che ogni giornale di questo mondo, di carta o di pixel, di materia impressa o di luce riflessa, sarà costretto, per avere un futuro, per sopravvivere o per rinascere, a una manutenzione attenta delle parole già note, e a una ricerca appassionata delle parole ancora ignote. Ogni giornale, ogni giornalista, ogni scrittore dovrà ricalibrare le parole una per una, cercarne continuamente il senso, usarle senza indifferenza e senza sciatteria. E’ proprio la moltiplicazione vorticosa della scrittura, il suo proliferare incessante grazie ai nuovi media, che renderà preziosa, e richiesta, la parola pensata, la parola qualificata.
L’Unità (come ogni giornale; anzi un poco di più, perché nel dibattito politico-intellettuale è nata e vissuta più di ogni altro giornale) avrà un futuro se avrà cura delle proprie parole. Nei tempi duri, e molto competitivi, che ci aspettano, la qualità sarà la sola zattera alla quale aggrapparsi. Righe di piombo o sequenze di impulsi elettronici contengono la stessa speranza: quella di capire e di capirsi tra umani. Io l’ho imparato, quel provare a capire e a capirsi, in viale Fulvio Testi a Milano.