Alfredo Reichlin, L’Unità 12/2/2014, 12 febbraio 2014
LA VOCE DEGLI UMILI AVEVAMO L’AMBIZIONE DI ESSERE I MIGLIORI
Che cos’è l’Unità? Di istinto risponderei: è un vessillo, un vessillo che ha segnato per decenni l’aspro cammino, del popolo lavoratore italiano è ha scosso il cuore e le menti di milioni di uomini. Che li ha spinti ad alzare la testa di fronte al padrone e non solo a lottare per la giustizia, ma credere nelle idee. Un sentimento che oggi sembra perduto. Fu lo strumento che nell’Italia di allora ha aperto gli occhi di tanta povera gente sul mondo “grande e terribile”. Allora non c’era la televisione. E io l’ho vista la grandezza morale della politica. Altro che “inciuci” e populismo. Ricordo una sera a San Ferdinando di Puglia un gruppo di braccianti poveri seduti, davanti alla sezione del Pci per ascoltare il segretario che leggeva per loro, ancora analfabeti, l’Unità. Ero un redattore di quel foglio, capii che lavoravo a qualcosa che non era solo un giornale.
Eppure così come una rosa è una rosa, un giornale è un giornale. Mi parlò così un grande capo e mi spiegò cosa voleva dire. Voleva dire che noi non eravamo solo un bollettino di notizie né solo uno strumento di propaganda. Dovevamo avere l’ambizione di essere un grande giornale, un giornale moderno capace di fare la concorrenza alla grande stampa borghese. Qui stava l’altra faccia di ciò che fece dell’Unità una cosa unica nel panorama europeo della stampa di sinistra. Certo era forte in noi il senso di alterità e l’orgoglio di essere la voce del movimento operaio. Eravamo diversi, con lo stipendio parametrato non con quello dei giornalisti “borghesi” ma con il salario dell’operaio della Fiat. E incessante, e perfino patetico era lo sforzo di cercare corrispondenti e nuovi giornalisti tra i giovani operai che incontravamo ad Empoli o a Sarzana. Ma chiaro e senza giri di parole fu l’ammonimento di Togliatti: state attenti a non sbagliare, il vostro modello non è la Pravda e nemmeno l’Avanti! di Scalarini (il famoso vignettista che rappresentava i padroni coperti d’oro e vestiti in tight). Il vostro modello è il Corriere della Sera, l’organo che forma le idee delle classi dirigenti. Così dovete fare con l’Unità. Voi siete l’organo di una nuova classe dirigente – la classe operaia – dovete informarla sui fatti reali dovete dare ad essa una visione e una cultura, una interpretazione del mondo. Non dovete fare solo propaganda.
Togliatti fu il vero fondatore del giornale, nella veste in cui l’Italia repubblicana e antifascista lo ha conosciuto. Il giornale era nato nel 1924 sulla base di una idea originale di Gramsci che lo aveva ideato e lo volle chiamare Unità non per caso ma per dire che bisognava allargare gli orizzonti. Il fascismo già preparava le leggi eccezionali, ma il giornale non doveva essere solo l’organo di una setta nata dalla scissione del Partito socialista. Qui stava il senso della fondazione di questo giornale. Esso non poteva essere solo la voce di un partito pensato (fino allora) come la sezione italiana del comunismo internazionale con sede a Mosca. Quel giornale doveva prefigurare una svolta, che poi ci fu col Congresso di Lione che “italianizzò” il Pci. Era la ricerca di una risposta nuova alle tempesta che incombevano (fascismo, clandestinità, prigione). Era l’aurora dell’idea di un fronte antifascista. Una idea più ampia, più unitaria, più capace di pensare la lotta come egemonia e non solo come assalto al potere e dittatura proletaria. Ed è con questa idea forte in testa che l’Unità tornò alla luce del sole dopo essere stata per un ventennio un foglietto clandestino che passava di mano in mano tra uomini che rischiavano la galera.
Io compresi di che cosa si trattava quando entrai una sera pochi mesi dopo la liberazione di Roma nella redazione di questo giornale. Erano poche stanze in via del Tritone. Direttore era Velio Spano, un uomo della vecchia guardia con una storia gloriosa clandestina alle spalle Redattore capo era Marco Vais anch’egli venuto dalla Tunisia, un uomo colto spiritoso e intelligente ma digiuno di giornalismo. In redazione quello che la sapeva più lunga era Marco Cesarini Sforza un bel ragazzo della borghesia romana che si muoveva in modo disinvolto, gran donnaiolo. Il clima era un po’ surreale. Quando ci fu il famoso attentato semi-fallito a Hitler nel titolo dell’Unità noi scrivemmo “Bentivegna non l’avrebbe mancato” (Bentivegna era il capo GAP di Via Rasella). Eravamo in pochi ragazzi come me, e tra questi ricordo Giuseppe Carbone che poi, anni dopo, ritrovai presidente della Corte dei Conti. Questa era la redazione. Si lavorava la notte, le pagine erano quattro o sei e c’era un gran via vai di persone interessanti. Cineasti e scrittori ci venivano a trovare. Milano era ancora occupata, ma noi eravamo già immersi nella vita politica romana. Però il primo incarico che mi fu affidato fu quello di fare il giro degli ospedali perché lì, nei pronto soccorso si trovavano i segni spesso sanguinosi della cronaca nera. Mi è rimasto impresso un feroce delitto passionale, un ufficiale che uccise per gelosia la sua donna – una donna bellissima – che trovai distesa per terra coperta di sangue. Il mio amico Luigi Pintor ancora disoccupato e incerto sul suo che fare, mi accompagnava.
Riscoprivo Roma e cambiò la mia vita. La città usciva finalmente dal silenzio e dalla paura. Le strade fino a ieri semideserte dove la gente si muoveva con cautela prima di chiudersi in casa per il coprifuoco erano percorse dalle jeep dei soldati americani, schiamazzanti e ubriachi. Non sapevo più chi ero. Ripercorrevo i luoghi dove c’erano stati agguati e sparatorie e non li riconoscevo più popolati com’erano da borsari neri e prostitute. Ero caduto in una seria crisi depressiva. Avevo 19 anni, uscivo da mesi di angosce e violenze che ancora oggi mi fa fatica ricordare. Ero stato “gappista”. Pochi mesi prima si sparava per le strade e si rischiava non la semplice prigione, ma le camere di tortura delle SS. Di colpo tutto questo era finito. Non sapevo che fare della mia vita. In uno di quei giorni qualcuno del Partito, mi invitò a una riunione. Mi disse: per conoscerci. I gappisti infatti avendo combattuto in cellula di tre rigidamente separate non si conoscevano. E così ci ritrovammo una ventina – non più di tanti eravamo – in un vecchio caseggiato di ferrovieri dove viveva il padre (un socialista) di uno di noi. Conobbi solo lì i volti di Bentivegna, Carla Capponi, Salinari, Antonello Trombadori e tutti gli altri. L’ospite si mise al piano e attaccò una canzone bellissima che non avevo mai sentito. Era l’Internazionale e ci abbracciammo coi volti contratti per la commozione. Fu così che decisi della mia vita. Rifiutai di entrare nello studio di mio padre avvocato e accettai di lavorare all’Unità come “rivoluzionario di professione”.
All’Unità ho trascorso una vita. Ho lavorato in tutti i ruoli: da cronista di “nera” a capo-cronista, redattore parlamentare, responsabile degli “interni” e commentatore politico, caporedattore e infine direttore. Lo fui due volte. La prima per sei anni, a cominciare da quell’anno memorabile che fu il 1956, l’anno dei fatti d’Ungheria e della destalinizzazione. La seconda volta negli anni del “compromesso storico” e dell’uccisione di Aldo Moro. Nel 1956 l’Unità, diretta allora da Ingrao entrò nell’occhio del ciclone. Fummo investiti in pieno dalla grande e drammatica discussione sul regime sovietico. Le stanze del giornale si affollavano di gente in subbuglio. Ma l’Unità diventò il luogo non solo della protesta, ma dello sforzo di guardare avanti per rilanciare la “via italiana al socialismo”. Ingrao emerse come tra i più vicini a Togliatti e quindi venne molto impegnato nella preparazione di quell’ottavo congresso che elaborò il nuovo “programma fondamentale” del partito, tutto rivolto a ridefinire la diversità dei comunisti italiani. Fu così che poco tempo dopo Ingrao mi annunciò che Togliatti lo aveva chiamato a far parte della mitica Segreteria e che per quanto riguardava la direziono dell’Unità lui e Togliatti pensavano a me. Rimasi non solo stupito, ma sgomento. Avevo appena superato i 30 anni e sapevo quale macchina gigantesca si era messa in moto negli ultimi anni e quanto fosse difficile dirigerla. L’Unità non era solo un grande giornale con quella ambizione di dettare l’agenda culturale oltre che politica. Non era più soltanto il portavoce della direzione del partito. Era molto di più. Cito la frase letterale di Togliatti che mi restò impressa: “voi siete la politica del Pci che si fa quotidiana”. Il che voleva dire che non dovevamo solo aspettare direttive dall’alto ma fare “politica”. Ci vantavamo di essere la Marina del partito: questo fu il commento acido di qualcuno.
E qui smetto di parlare di me. L’ho fatto solo perché la mia vicenda personale dà una idea del singolare incontro tra le avanguardie giovanili e intellettuali italiane e alcuni personaggi straordinari che arrivavano da un lungo esilio e con una visione forte della storia italiana. Ed è stata questa la matrice di quel fenomeno veramente originale rappresentata dall’Unità. Arrivammo a vendere un milione di copie la domenica e trecentomila nei giorni normali, eravamo il solo giornale a diffusione nazionale che si leggeva a Trento come a Siracusa, a differenza di tutti gli altri (Il Corriere si comprava quasi solo in Lombardia, la Stampa in Piemonte, il Messaggero a Roma). La pagina culturale la dirigevano uomini come Italo Calvino e la critica era affidata a personaggi come Giacomo De Benedetti. I redattori si chiamavano Paolo Spriano, Maurizio Ferrara, Luciano Barca, Luigi Pintor, Luca Pavolini, Gabriele De Rosa e tanti altri che non nomino. Uscivamo in quattro edizioni (Roma, Milano, Torino e Genova) poi, col tempo, ridotte a due (Roma e Milano) e infine tutto fu concentrato a Roma. L’edizione romana faceva da guida, forniva gli articoli e impostava gli argomenti principali della prima pagina, ma gli altri godevano di una loro autonomia. Ho partecipato così alla costruzione di una cosa molto complessa e molto pensata, costruita soprattutto da Ingrao, Pajetta e Amerigo Terenzi. Si guardò attentamente alle esperienze straniere più interessanti. Sopratutto a quella francese dell’Humanitè, l’organo del Pcf che era stato fondato dalla grande figura socialista di Jean Jaures. Era stato un grande giornale diretto volta a volta da famosi intellettuali e aveva anch’esso un impianto più aperto rispetto alla tradizionale stampa comunista. Ed è nel nome dell’Humanitè che il Pcf organizzava il consenso popolare anche attraverso una gigantesca festa annuale in un parco parigino.
Noi inventammo così le feste dell’Unità, il più grande raduno di masse che l’Italia conosca. Creammo anche l’associazione degli “amici dell’Unità” una vasta schiera di persone che animavano iniziative e dibattiti intorno al giornale e soprattutto ne curavano la diffusione. Fu così che intorno al giornale si organizzò un mondo di opinione e di interessi. Diventammo un grande potere “morale” ‘una espressione della fiducia popolare: “non è vero se l’Unità non lo dice” oppure “vi denuncio all’Unità” e vi, diventavano modi di dire popolare. Ma il consenso non era unanime. A molti vecchi compagni l’Unità non piaceva. Essi deploravano il modo come noi riferivamo di fatti della vita che con la lotta di classe non avevano nulla a che fare e davamo, secondo loro, troppo spazio e cronache di varia umanità: scandali, fatti sportivi, spettacoli. Quindi pretendevano (e qualche volta ottenevamo) che il direttore venisse chiamato a discutere in sede ufficiale (la direzione) la linea del giornale e il suo corrispondere o meno ai bisogni delle masse, allo scontro di classe e ai rapporti internazionali.
Togliatti lasciava dire, ma poi con qualche battuta ironica ci diceva di non dare peso a queste opinioni, e di andare avanti sulla via del grande giornalismo. Pensava lui a coprirci le spalle. La nostra vita non era vita facile, ma questo rapporto complesso con il lettore e, al tempo stesso con la dirigenza del partito è stato vitale. Era una singolare dirigenza. Tra le lettere al direttore più volte mi è capitato di trovare una missiva critica firmata “un gruppo di affezionati abbonati” con sotto la firma di Togliatti Palmiro, Amendola Giorgio, Pajetta Giancarlo. Ricevevo spesso osservazioni del segretario su cose come il resoconto del Giro d’Italia o la recensione di un film. E spesso, la sera, la macchina che lo riportava a casa si fermava davanti alla redazione di Via Quattro Novembre e Togliatti saliva in redazione per informarsi sulle novità e bere una birra insieme a noi. Una volta, dopo una seduta particolarmente importante della Camera ci chiese di poter scrivere lui stesso il resoconto. Era un pezzo troppo lungo, ma molto preciso. Lo pubblicammo senza tagli o correzioni.
Mi fermo. L’Unità fu davvero un vessillo. Non era neutrale, come falsamente si dicono i grandi giornali della classe dirigente. Non fu però un bollettino di partito. Era uno strumento di quella “democrazia che si organizza” che per la prima volta nella storia unitaria dette voce anche agli ultimi e gli sfruttati. Aveva una redazione di prim’ordine consapevole della sua missione la quale allora consisteva nel fatto di essere la “politica del Pci che si fa quotidiana”. E quindi nello sforzo di leggere il mondo in modo autonomo. L’Unità era del Partito ma non aveva padroni. Tutto è cambiato da allora. Ma ciò che nel giornale di oggi è bene che continui è la libertà di leggere e raccontare il mondo in base a una visione alta e umana della politica.