Maria Laura Giovagnini, Io Donna 15/2/2014, 15 febbraio 2014
CATERINA CASELLI E MARCO SBARBATI: “ALLA LARGA DA SANREMO”
«Si è lasciato mettere un po’ di cipria? Davvero? Wow!». Ebbene sì: Marco Sbarbati per il servizio fotografico di Io donna si è fatto “spennellare” (appena appena). La vera notizia - ovvio - non è questa. La notizia è la sorpresa dello staff. Perché dice già molto su questo ventottenne marchigiano avverso agli artifici.
Non è un caso che fosse un artista di strada - un busker, per essere più internazionali - prima di venire accolto nella squadra di Caterina Caselli. Che, con la Sugar, sbaglia pochi colpi: Elisa, Andrea Bocelli, Malika Ayane, i Negramaro, Raphael Gualazzi… tutte scoperte sue. Andando a ritroso si può risalire fino a un certo Francesco. Francesco Guccini.
«Lo frequentavo e lo ammiravo: era il più colto tra noi. Così, quando affidarono un trasmissione a me e Giorgio Gaber (Diamoci del tu, 1967, ndr), decidemmo di invitare due esordienti: io scelsi Guccini, lui Franco Battiato» ricorda lei, allo stesso tavolo-riunioni della casa discografica milanese in cui si sono decisi tanti destini.
«Forse era scritto che dovessi diventare talent scout. Essere stata cantante, e con parecchia soddisfazione - seppure per un periodo breve – si è rivelato un vantaggio: riesco a mettermi nei panni dell’altro con facilità. Conosco le timidezze e il segreto per superarle: avere dentro di te la certezza che ti sei preparato, che hai le carte in regola. Ecco la cosa fondamentale. Per me il talento è timido: certi sbruffoni che vengono in ufficio a proporsi sul palco poi sono delle vongole. Perché ridi, Marco?».
Avanziamo un’ipotesi , Sbarbati non si sente affatto nella categoria “sbruffone-vongola”. Per due motivi: è assai timido e in pubblico ci sa stare.
Benché paia una contraddizione: come può un introverso esibirsi sulla via?
«Di sicuro è un palco difficile: se stai lì due ore e nessuno si ferma, il messaggio è chiaro… Invece mi capitava di suonare e di ritrovarmi tutti questi ragazzi davanti» racconta lui, che è arrivato a Bologna nel 2008 per studiare al Dams, dove si è laureato con una tesi originale (interpreta il successo delle serie tv come un tentativo di esorcizzare la morte).
«Ho iniziato grazie a una busker americana: una sera del 2009, in Piazza Maggiore, mi ha offerto la chitarra. Da quella volta ci ho preso gusto. Ci sono artisti di strada “puri”, nomadi, che non mettono radici. Io no, per me non è una filosofia di vita, è un divertimento». Un giorno è passato Lucio Dalla. «Si è complimentato, mi ha lasciato un contatto per mandargli le mie canzoni. E, inaspettatamente, ha deciso di inserirne una, I don’t wanna start, nella colonna sonora di AmeriQua (il film del 2013 con Bob Kennedy III , ndr)». L’happy end è lontano: subito dopo Dalla è mancato e Sbarbati ha ricominciato daccapo. Partecipando a una sorta di provino via web organizzato dalla Sugar e venendo in seguito ammesso a uno in piena regola.
Che cos’ha di speciale da colpire al primo ascolto? «L’unicità. Quello che è di moda, è già fuori moda» spiega la Caselli. «La sua è una voce particolare, personale e ha un’estensione di tutto rispetto: siamo bombardati di musica e un timbro che si distingua rispetto alla massa è importantissimo. Da solo, comunque, non è sufficiente. Servono buone canzoni, espressive. Serve personalità. E a Marco non manca, è uno che tiene il suo punto. Mi piace il dialogo alla pari. Ci saranno momenti in cui dovremo discutere... Va bene, è utile».
Avete già cominciato? Magari per la partecipazione a Sanremo, visto che lui è tanto schivo?
«A essere sinceri sì...» sorride. «Non per questo, però. C’era un brano in italiano pronto, ma avevamo opinioni diverse sul testo, mancava il tempo per trovarne uno che piacesse a entrambi. E siccome al festival non si può cantare in inglese... Abbiamo rinunciato».
A proposito: come mai, Marco, preferisce cantare in inglese? «In italiano non l’ho mai fatto, è una nuova sfida. Quando ho iniziato, a 16 anni (puro autodidatta, senza precedenti in famiglia: mio padre ha il supermercato in piazza a Orbisaglia, in provincia di Macerata), ho messo su un gruppo rock, The Shabbies. Pareva una scelta obbligata. O forse, visto che scrivo testi intimisti, ho usato l’inglese come una specie di scudo. Per esempio Backwards (il singolo che anticipa l’album, di prossima uscita, ndr) parla di qualcosa che conosco bene: la sensazione di lavorare tanto per arrivare a un crack che ti riporta al punto di partenza... Prima trovavo ispirazione nelle vite degli altri, a me capitava davvero poco».
Ora, cipria o non cipria, non potrà più dirlo.