Massimo Gaggi, Io Donna 15/2/2014, 15 febbraio 2014
BRASILE, ECONOMIA IN FRENATA
Samba, colori, favelas, foreste amazzoniche e i jet dell’Embraer che ormai trovi in qualunque aeroporto del mondo. E poi calcio, nuovi ricchi, spiagge, acciaierie, tribù primitive, i grattacieli “blindati” di San Paolo, oro, petrolio, ferro, topazio, ametista. Anche la Fiat, primo produttore d’auto sudamericano, che ormai costruisce più vetture in Brasile che in Europa. E, ancora, gioia, fantasia, energia, musica, a volte violenza, in un incredibile “melting pot” di razze: portoghesi, indios, carioca, i figli degli emigrati da decine di Paesi europei e i discendenti degli schiavi africani. Quelli che con la capoeira hanno creato un’arte marziale che diventa danza: musica, difesa e armonia in un incrocio complesso, affascinante e indefinito.
È questo e molto altro il Brasile che si sta giocando una tumultuosa partita con la modernità, in bilico tra riti magici - candomblè e macumbe - e il tentativo di strappare alle “tigri” asiatiche la palma di economia più dinamica e globalizzata. Un Paese di grandi spazi - l’immensa pianura del Pantanal - e di grandi folle. Esplosivo fin dalle sue dinamiche demografiche: 51 milioni di abitanti nel 1950, quasi 200 oggi. Quadruplicato. La popolazione dell’Italia, per dire, nello stesso periodo è cresciuta di un quarto: da 45 a 60 milioni di abitanti.
Zeppo di risorse minerarie da sempre, il Brasile ha scoperto di recente anche immensi giacimenti di petrolio “off shore”. Moneta forte, produzione industriale cresciuta per molti anni a tassi superiori al 5 per cento, il gigante sudamericano è ormai un Paese ricchissimo, con un numero crescente di milionari che sciamano in giro per il mondo e soprattutto negli Stati Uniti.Dove hanno colonizzato i condomini di lusso di Miami, mentre in quelli di New York i miliardari brasiliani hanno ormai affiancato - e spesso sopravanzato - l’aristocrazia del capitalismo anglosassone, gli oligarchi russi e i nuovi ricchi cinesi e indiani.
A differenza delle economie emergenti dell’Asia, dove le masse sono uscite dalla povertà estrema, ma raramente hanno raggiunto livelli di benessere “occidentali”, nel Brasile di Il vero volto del BrasileLula e, ora, di Dilma Rousseff, lo sforzo è stato quello di promuovere uno sviluppo economico più equilibrato. Molti miliardari nei grattacieli di San Paolo, certo, mentre tantissimi brasiliani vivono nelle “favelas”. Ma anche la creazione di un esteso ceto medio benestante e piuttosto colto che rende la struttura della società più simile a quelle europee rispetto alle nuove potenze asiatiche.
E poi le “favelas” di Rio, molte delle quali sono state ripulite militarmente dai “signori della droga”, stanno diventando anch’esse luogo di residenza di una nuova piccola borghesia: sorvolando quelle del Complexo di Alemao con la nuova funivia urbana costruita nella zona di Buonsuccesso, ci si rende conto che le baraccopoli sono ormai fatte quasi tutte di case di mattoni tra le quali cominciano a sorgere anche scuole, campi sportivi, piccole piscine.
Con le grandi città trasformate in cantiere dalla lunga vigilia dei mondiali di calcio del 2014 e dalle Olimpiadi che verranno ospitate dal Brasile due anni dopo, oltre che dalla cronica carenza di opere pubbliche, Dilma Rousseff - un’economista socialista con un passato di lotta armata contro la dittatura militare - rivendica con orgoglio l’attuazione di politiche che, dall’inizio del suo mandato nel gennaio 2011, hanno consentito di creare altri 4 milioni di posti di lavoro. Un numero che lei giudica straordinario, se confrontato con quello che succede nell’Europa in recessione.
In effetti sono numeri positivi anche se il confronto lo si fa con gli Stati Uniti, anziché con l’ansimante Ue: gli economisti americani fanno festa quando nel loro Paese in un mese vengono creati più di 200 mila posti di lavoro, come ha fatto il gigante sudamericano nel mese scorso. E gli Usa hanno più di 300 milioni di abitanti. Ma il Brasile è anche un Paese turbolento, pieno di contrasti. E la macchina della sua crescita da qualche tempo si è inceppata.
Nuovi posti di lavoro sì, soprattutto grazie alle opere pubbliche e alla politica dirigista del governo brasiliano. Che, però, lascia le imprese in balìa di una burocrazia inefficiente e prepotente quasi quanto quella dell’India: fare impresa in Brasile non è roba per gente debole di cuore. Se va bene si può anche guadagnare molto, ma decollare è un problema: non si può certo dire che il Brasile sia famoso per le sue “start up”. Né per il suo sistema formativo: le scuole sono un mezzo disastro. Quanto alla sanità pubblica, non la si può bocciare semplicemente perché non esiste un sistema degno di questo nome. Una prosperità rumorosa, tesa, precaria, quella del Brasile, che ha smesso da qualche tempo di crescere. Gli esperti ricordano il “miracolo economico” degli anni Sessanta, seguito poi da un lungo periodo di iperinflazione e bassa produttività, e tremano. Il governo cerca di sostenere il sistema con grandi piani di opere pubbliche: dighe, autostrade, aeroporti, oltre ai lavori per Mondiali e Olimpiadi. Qualcuno li considera faraonici, ma in un Paese che quasi non sa cosa sia una ferrovia, è difficile sostenere che non ci sia bisogno di infrastrutture.
Anche nella società qualcosa scricchiola. La crescita ha trasformato 35 milioni di poveri in ceto medio, ma ora le distanze tra le classi sociali tornano ad allargarsi. La Rousseff corre ai ripari allargando il perimetro di “Bolsa familia”, un tipico programma assistenziale: uno stipendio per le famiglie povere in cambio del loro impegno a vaccinare i figli e a mandarli a scuola. Ridurrà il degrado, ma non è detto che sia educativo né che dia una spinta positiva a un Paese che sta perdendo competitività.