Ermanno Bencivenga, Domenica, Il Sole 24 Ore 16/2/2014, 16 febbraio 2014
L’ULTIMO VOLO DI MARTHA
Una colomba migratrice misurava dai 35 ai 45 centimetri di lunghezza e pesava circa 300 grammi. Il maschio era blu e grigio sul dorso, rossastro e violaceo sul petto e sulla gola; nella femmina, il beige sostituiva il rosso. Disegnata per volare a lungo, aveva forti muscoli pettorali e ampie ali che colpivano l’aria come remi; durante una migrazione, poteva raggiungere i cento chilometri orari. Presente in Nordamerica all’arrivo dei primi coloni europei, il suo habitat era limitato agli stati e alle province canadesi dell’Est, con particolare preferenza per una zona che dall’Atlantico arrivava fino ai grandi laghi. La sua principale caratteristica, però, era la sua profusione, definita da molti inimmaginabile, che ne faceva, ci informa Joel Greenberg in A Feathered River across the Sky, «l’uccello più abbondante del continente, se non del pianeta».
Uno stormo di colombe migratrici poteva oscurare il sole per giorni. Nel maggio 1860, a Fort Mississauga nell’Ontario, il cacciatore inglese W. Ross King ne osservò uno largo almeno un chilometro e mezzo che occupò il cielo per quattordici ore; successivi calcoli hanno stimato che quel singolo stormo dovesse contenere più di tre miliardi di uccelli. Quando scendevano a terra per nidificare e riprodursi, occupavano aree grandi quasi come una regione italiana; la più grande di cui si abbia notizia, che si formò nel 1871 vicino a Sparta, nel Wisconsin, copriva 2200 chilometri quadrati (la Val d’Aosta si estende per 3263 chilometri quadrati). Gli alberi cedevano sotto il loro peso, gravati da centinaia di nidi; se si abbeverano a uno specchio d’acqua, le prime ad arrivare affogavano schiacciate dalla massa enorme di quante le seguivano.
L’ultima colomba migratrice, una femmina di nome Martha, morì allo zoo di Cincinnati il primo settembre 1914. Originariamente faceva parte di una coppia che comprendeva anche un maschio di nome George (un ovvio omaggio a George e Martha Washington). George era morto il 10 luglio 1910; quindi per oltre quattro anni Martha fu l’unico membro di una specie ormai estinta. Molto vecchia, divenne incapace di muoversi; ma i visitatori le gettavano addosso sabbia per vederla camminare. Oggi, impagliata, è esposta allo Smithsonian National Museum of Natural History di Washington. Che cosa è successo? Come è possibile che in mezzo secolo si sia passati da una popolazione di miliardi di colombe migratrici a zero? Il documentarista David Mrazek ci ha lasciato una risposta concisa ma sostanzialmente corretta: «Noi siamo successi alla colomba migratrice». Non esiste forse un esempio più evidente della distruzione apportata dagli esseri umani nei confronti di altri animali. Le colombe migratrici non esistono più perché le abbiamo massacrate.
Greenberg fornisce un catalogo dettagliato delle tecniche di sterminio. Talvolta gli uccelli venivano asfissiati bruciando zolfo sotto i nidi oppure disorientati con torce accese; non rimaneva poi che raccogliere quelli caduti a terra. Colombe che volavano vicino al suolo erano abbattute con qualsiasi mezzo: bastoni, pietre, mani nude, in un’isolata circostanza patate. Alcuni si dilettavano con arco e frecce. Ma gli strumenti di gran lunga più efficaci erano i fucili e le reti. Sparando nel mucchio si ammazzavano spesso più colombe in un colpo solo; quando passava uno stormo, dunque, tutti si armavano e facevano fuoco a volontà. Sosteneva Margaret Mitchell (un’omonima dell’autrice di Via col vento) che questa fosse «una tentazione cui l’umana virtù non sapeva resistere». C’erano poi le competizioni "sportive" di tiro al piccione che reclamavano la vita di decine di migliaia di uccelli e in cui emergevano eroi popolari e sfide leggendarie. Nelle reti le colombe venivano attirate con del cibo o con piccioni da richiamo (l’espressione inglese stool pigeon è passata nel linguaggio corrente per indicare una spia). Una volta intrappolate, andavano uccise prima che potessero sfuggire: si potevano stritolarne testa e collo con due dita o con una pinza, ma molti preferivano un bel morso.
Fino alla metà dell’Ottocento, si trattava di comportamenti locali; il passaggio di uno stormo era anzi spesso considerato una manna per comunità minacciate dalla carestia. Con l’avvento del treno e del telegrafo, l’aggressione indiscriminata alle colombe diventò un’industria nazionale: appena si segnalava che uno stormo aveva nidificato, arrivavano centinaia di "professionisti" a fare strage. Gli uccelli non avevano più requie; disturbati nel loro ciclo riproduttivo, si levavano spesso in volo senza averlo completato.
In molti oggi rimpiangono la colomba migratrice. Nel centenario della morte di Martha, il 2014 sarà ricco di convegni e commemorazioni. Si parla addirittura di utilizzare il Dna dell’uccello estinto per clonarne nuovi esemplari. Ma la morale migliore per questa storia è offerta ancora una volta da Greenberg: «Le manifestazioni d’interesse e d’affetto vennero solo dopo che le colombe erano scomparse».