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 2014  febbraio 16 Domenica calendario

CAVAR GOMMA DA UNA RAPA


«Il macchinario arrivava, gli operai crescevano, il disordine sembrava assumere forme catastrofiche i capi cantiere si azzuffavano tra loro, si rubavano attrezzi, uomini, quello che potevano per finire uno prima dell’altro». Nel libro curato da Pietro Redondi sulla nascita della gomma artificiale italiana, fra i molti documenti e appendici che lo corredano, si distingue un articolo scritto nel 1947 dal conte Franco Grottanelli, personaggio d’alto livello come chimico industriale, oltre che come alpinista e scrittore. Uscito nella rivista dei chimici degli enti pubblici, quel testo ci meraviglia per la vivacità e la coloritura, inattese in una testata di quel genere: si può parlar di tecnologia divertendo.
Le parole citate si riferiscono allo stabilimento ferrarese, dove, fra l’aprile del 1942 e il luglio del ’44, vennero prodotte migliaia di tonnellate di gomma sintetica, finché i bombardamenti alleati lo misero fuori uso. Pur non coprendo che poco più di metà del fabbisogno della nazione in guerra, il risultato fu comunque un prodigio della tecnologia alimentata dalla ricerca scientifica italiana. Una via antieconomica, ma in linea con l’autarchia e imposta comunque dall’impossibilità d’importare il caucciù.
Al libro hanno contributo lo stesso Redondi e altri tre autori: Italo Pasquon, Marino Ruzzenenti e Giorgio Nebbia. Si può dissentire su un paio di cosette: per esempio, viene fraintesa una lettera scritta nel ’47 da Primo Levi alla rivista La chimica e l’industria. Sopravvissuto ad Auschwitz perché adibito in quanto chimico alla produzione locale di gomma, Levi esprimeva chiaramente non già una paradossale benevolenza verso i persecutori, ma il suo interesse di scienziato per l’imponente realizzazione tecnologica.
Il libro presenta comunque vari temi di grande rilievo. Potremmo cominciare dal rapporto con l’alleato tedesco che ci considerava inferiori. Prima della guerra le ricerche italiane sulla gomma artificiale s’avvalevano di collaborazioni internazionali di prim’ordine, per esempio col mondo industriale inglese. Ai nostri scienziati non garbava un ruolo da subordinati, e lo stesso regime fascista voleva distinguersi da colui che all’inizio ne era stato ispirato e ormai invece ci portava a rimorchio.
Grottanelli ammette che la via italiana alla gomma era necessaria ma insufficiente, e presenta lo stabilimento di Ferrara anche come esca per convincere i tedeschi, diffidenti, che in Italia la produzione industriale poteva essere impiantata con successo. Sorse così uno stabilimento a Terni, col processo tedesco Buna (dal monomero butadiene e dal tedesco Natrium, il sodio che era impiegato in origine). Ma lì, per gli sviluppi della guerra, la produzione non fece a tempo a cominciare. Nel ritirarsi, i tedeschi smontarono i macchinari e se li riportarono via.
Le due sedi non erano casuali. I processi differivano per la materia prima. I tedeschi partivano dal carbon fossile, di cui avevano abbondanza; fattolo arrivare a Terni, avrebbero sfruttato l’energia idroelettrica della vicina cascata delle Marmore per il primo stadio, nel quale il coke diventava carburo per trattamento con calce ai duemila gradi raggiunti in fornaci ad arco.
Noi di carbone ne avevamo poco, sicché fu scelto di partire dalle miscele zuccherine estratte dalle barbabietole negli zuccherifici del ferrarese. Il processo risalente al russo Lebedev, che nel 1910 ottenne la prima gomma sintetica, trasformava per fermentazione lo zucchero in alcol; questo poi forniva l’idrocarburo butadiene, che infine veniva polimerizzato. Di sviluppare la versione italiana venne incaricata la Pirelli, tramite scienziati suoi, come Aleksandr Maksimoff fuggito nel ’20 dall’Unione Sovietica, e dell’ambiente universitario.
Fra questi ultimi spiccava quel Giulio Natta poi diventato famoso per il polipropilene e il conseguente premio Nobel del 1963: unico Nobel italiano per la chimica. Natta era già professore ordinario da quattr’anni, ma, nato a Porto Maurizio (Imperia) nel 1903, era solo trentaquattrenne quando nel 1937 la Pirelli stipulò con lui un contratto che gli fruttava quattromila lire mensili, equivalenti a circa altrettanti euri attuali, che si sommavano al suo stipendio di docente. Dal progetto affidatogli, che coinvolse l’Iri, scaturirono i prototipi di pneumatici esposti alla fiera di Milano e poi il Cauccital, uno dei nomi proposti per la produzione di Ferrara.
Natta stesso riconobbe poi che quel primo grande impegno servì a formarlo e quindi a lanciarlo nella successiva splendida avventura del polipropilene con la Montecatini. Il tutto dovrebbe insegnar qualcosa a quegli universitari che considerano disdicevole collaborare con l’industria. Agl’imprenditori di oggi, dal canto loro, farebbe bene meditare sulla mano libera che Natta ebbe in entrambe quelle occasioni. Coloro che hanno partecipato allo scempio recente dell’industria chimica nostrana dovrebbero invece rileggere, nel libro, l’intenzione manifestata dai loro predecessori: nel ’46, dopo lo sfacelo della guerra, essi non vollero che andasse perduto il ricco patrimonio di cultura tecnologica che la rincorsa alla gomma sintetica aveva spinto a raccogliere.