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 2014  febbraio 16 Domenica calendario

RENZI ATTESO AL VARCO DELLE RIFORME


Da quando la moneta unica ha inevitabilmente rafforzato l’interdipendenza tra le economie dell’euro e da quando questo quinquennio di crisi ha fornito l’allarmante conferma dei pro e contro della medesima, l’Europa ama soprattutto una cosa dei suoi paesi membri: la stabilità. Politica ed economica.

E la stabilità dell’Italia, in particolare: perché siamo la terza economia dell’euro ma quella che in assoluto cresce meno. Perché senza sviluppo il nostro maxi-debito diventa insostenibile nonostante il deficit in linea (per ora) con i parametri di Maastricht e perché siamo in clamoroso ritardo sulle riforme strutturali che, è ormai dimostrato, sono dovunque nell’era globale il motore dello sviluppo, tra l’altro in mancanza della leva della svalutazione.
Dunque all’Europa riusciva sgradita l’Italia di Silvio Berlusconi, incomprensibile e poco controllabile. Era in piena sintonia con quella di Mario Monti, il suo opposto. Con il suo europeismo tranquillo ma determinato, l’Italia di Enrico Letta, "il piccolo Monti" come lo chiamavano a Bruxelles, ne era un buon surrogato anche se, raccontano, all’ultimo vertice Ue di dicembre, la sua battaglia per oltrepassare indenne da procedure Ue punitive la soglia del 3% per il deficit per stimolare la crescita smorta del paese, gli aveva procurato un fermo richiamo all’ordine da parte di un’Angela Merkel visibilmente irritata.
Ora debutta l’Italia di Matteo Renzi, un oggetto sconosciuto oltreconfine, la terza giravolta alla guida del paese in poco più di due anni. E già questo non collima con i desiderata europei di stabilità: tanto forti che, con le recenti riforme, la Commissione Ue ha ottenuto poteri intrusivi e condizionanti nella vita dei paesi dell’eurozona al punto che la bozza annuale di bilancio, prima di passare all’esame dei parlamenti nazionali, deve ormai essere vistata da Bruxelles.
Tanto che, a quasi tutti gli effetti, ormai la politica europea è diventata una delle variabili ineludibili della politica interna di ogni paese membro. Tanto che, per garantire il bene supremo della stabilità, la democratica Europa non ha esitato negli ultimi anni a sostituire con governi tecnocratici quelli democraticamente eletti ma ritenuti inadeguati.
Renzi è giovane, impetuoso, con una voglia di cambiare travolgente. Almeno a parole. Più del Berlusconi prima maniera, ricorda il Nicolas Sarkozy degli esordi, giubbotto e ray-ban all’Eliseo, il bullo nell’aspetto oltre che nell’ansia di rifare il mondo. Alla fine però uscì dalle stanze del palazzo presidenziale francese con un altro soprannome: era diventato il "barboncino" di Angela (Merkel beninteso). Meno Rodomonte, anche François Hollande, il suo successore socialista, millantava una gran voglia di cambiare il corso di un’«Europa ridotta a un riformatorio»: si è adeguato anche lui, non più tardi di un mese fa.
Cambio della guardia a Roma va bene ma che «sia presto» e senza scossoni, indolore ha mandato a dire il cancelliere tedesco. Avvertimento misurato ma chiarissimo. L’Italia non ha bisogno di avventure né di eventuali bravate giovaniliste. L’Italia ha un cammino segnato, come tutti i membri dell’euro, e deve percorrerlo senza guizzi, scarti improvvisi o sorprese. Al contrario di Irlanda, Grecia, Spagna e Portogallo, è sfuggita finora alla "troika" ma deve fare da sola le riforme della troika perché la cura funziona: crescita e competitività stanno tornando nella banda dei Quattro. E anche la Francia ha capito che quella è la strada.
Meno spesa pubblica ma sul serio, meno Stato nell’economia, una pubblica amministrazione efficiente e moderna, cioè meno ridondante e oppressiva, semplificazioni legislative e regolamentari, tassazione meno soffocante per imprese e lavoratori, mercati "sgessati", una riforma del mercato del lavoro che lo renda davvero flessibile, scuola e formazione a misura della competitività globale e tanta ricerca e innovazione. È più o meno questo il canovaccio europeo delle riforme da attuare presto e bene. Senza illudersi che esistano a breve scorciatoie come l’abbattimento del muro del 3% o l’utilizzo della clausola degli investimenti: per ora Bruxelles non ne vede le condizioni proprio per i ritardi accumulati sul fronte riforme. È a questo varco che l’Europa aspetta il Governo Renzi per giudicarlo su fatti concreti. Finora se ne sono visti troppo pochi nell’opinione dei nostri partner: quella crescita da oltre un decennio stentata è lì a dimostrarlo senza dubbi possibili. Il nuovo premier – è bene che lo sappia subito – non avrà grandi margini di manovra a Bruxelles e dintorni, se non quello di fare subito i compiti a casa. Di riempire con questo impegno il semestre di presidenza Ue dell’Italia.
Se ci riuscirà e per questo avrà guadagnato a sé stesso e al paese una solida credibilità, poi potrà sedersi al tavolo dei vertici europei con i suoi cahier de doléance, con le sue anche giuste rivendicazioni. Prima no, non verrebbe ascoltato. Tanto più che sarebbe solo.