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 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

GENERAZIONE “SDRAIATI” CINICI A QUATTORDICI ANNI


Se fosse vero, se tutto quello che racconta Sacha Sperling nel suo romanzo d’esordio fosse realmente autobiografico potremmo decretare la fine dell’adolescenza. Un quattordicenne della Parigi bene si trastulla con droghe di ogni tipo, si procura sesso veloce nei locali notturni appena può, vive di notte vagando come un cane randagio nelle strade della città. Ma soprattutto non fa tutto questo per ribellarsi, non è in guerra con il mondo degli adulti, non insegue il sogno romantico della maledizione, semplicemente non ha altro da fare: nessuno scopo, nessun rimorso, tantomeno qualche particolare desiderio. Il vuoto. L’autore, che condivide con l’io narrante lo stesso nome Sacha, ha scritto Le mie illusioni danno sul cortile nel 2009, quando aveva diciotto anni. In Francia il romanzo, edito da Fayard, è stato un caso editoriale, in Italia arriva ora, pubblicato da Einaudi nella collana Stile Libero, tradotto con grande efficacia da Monica Capuani. Si è parlato di un nuovo Bonjour Tristesse. Vero, ma solo in parte, perché nel romanzo di Sperling non c’è neppure l’ombra della leggerezza e spensieratezza di Françoise Sagan, nulla della sua Cécile, così divinamente superficiale. Ma quelli erano gli anni Cinquanta. Qui è piuttosto Bret Easton Ellis il nume tutelare, come Sperling stesso ha ammesso in qualche intervista e come traspare da ogni riga, dalla sintassi cruda priva di giri, dalla lucida spietatezza fotografica delle descrizioni e naturalmente dal quel mix di lusso e droghe che dalla Los Angeles anni Ottanta sbarcano ora nella Parigi del nuovo millennio.Né ribelli, né edonisti, questi adolescenti sono disperati. Sperling scrive il romanzo della noia divenuta insopportabile, un canto stonato in cui rimbomba l’eco della solitudine. Sacha racconta in prima persona tutti i particolari della sua dannazione, in primo luogo l’amicizia con Augustin, angelo sterminatore che ricorda il giovane di Teorema, il film di Pasolini, o gli adolescenti silenziosi e impenetrabili dei film di François Ozon. Insieme cercano di riempire il tempo frastornandosi con barbiturici, oppiacei, cocaina, alcolici, musica, sesso. Hanno solo quattordici anni e sono anestetizzati. Non sanno piangere, non si innamorano, fanno sesso con meccanica indifferenza o si masturbano davanti a video porno.
Nella quarta di copertina dell’edizione italiana, Sacha e company vengono definiti “sdraiati”, dal titolo del libro di Michele Serra, e in effetti sono apatici e privi di traguardi. Ma i loro genitori, tutti benestanti ex sessantottini che vivono in case che guardano sulla Senna, non sono migliori. La mamma di Sacha è una fotografa, presa dalla sua vita e molto distratta. Il padre, che ha un’altra famiglia e non ha mai vissuto con loro, organizza feste a bordo piscina dove le donne ricche arrivano in costume Dior turchese e gli uomini con la camicia Ralph Lauren aperta. Ci sono dei momenti, durante le passeggiate notturne dei due amici per gli Champs-Élysées, dopo essere usciti da discoteche che hanno nomi come Panic e Scream, in cui la flânerie diventa allucinata e la testa, sotto effetto delle droghe, viene bombardata da immagini violente, come fosse una spugna imbevuta di acido. I passanti si trasformano allora in giovani dagli occhi vermigli, zombie deambulanti nell’oscurità con le orbite vuote. Parigi in un incubo al neon. Sono gli unici episodi in cui anche la scrittura si slabbra, concedendosi qualche metafora. Per il resto rimane asettica per consentire a Sacha di guardare il mondo come da dietro una lastra di vetro.
Ma è proprio questa freddezza priva di aggettivi che fa superare a Sacha Sperling, figlio di Diane Kurys (suo il film Sagan) e del regista Alexandre Arcady, la prova dell’autofiction generazionale, su cui grava la giovane età dell’autore e un titolo ruffiano preso da una canzone di Serge Gainsbourg. La perdizione descritta nel romanzo non ha alcuna aurea passionale, ma si appiccica addosso, è insidiosamente contagiosa. Sperling scrive un’altra tappa del grande romanzo sulla noia borghese, in cui i piaceri diventano tregue facili e labili alla nausea esistenziale. Che abbia inventato o descritto la sua vita poco importa. In ogni caso lo ha fatto bene: i nuovi cinici hanno quattordici anni e riescono a parlare senza pensare, ridere senza emozionarsi e avere erezioni senza desiderio.