Antonio D’Orrico, La Lettura 16/2/2014, 16 febbraio 2014
È TORNATO RE KING
Niente suspense, lo dico subito: c’è riuscito. C’è riuscito ma... Sì, c’è un «ma», anzi un paio di «ma» per la precisione. Procediamo con ordine. Stephen King si è cimentato in una impresa quasi impossibile: dare un seguito a Shining, il suo romanzo che ha fatto più paura, secondo il giudizio insindacabile dei fan. Rimetterci mano significava avventurarsi su un terreno minato e King lo sapeva: «Niente può essere all’altezza del ricordo di un forte spavento, e sottolineo niente , specie quando si è giovani e facilmente impressionabili». La voglia di provarci è stata più forte. Il discorso riprende da Danny Torrance, il figlio di Jack, lo scrittore fallito e alcolizzato. Danny è un infermiere particolarmente pietoso verso i moribondi (per questo lo chiamano Doctor Sleep) e sembra pure lui avviato sulla china perdente e alcolizzata del padre quando, con uno scatto di orgoglio, si libera dalla schiavitù della bottiglia. A questo punto incontra una ragazzina che, come lui, possiede (è posseduta da) lo shining , il sesto senso premonitore. La ragazzina è in pericolo di vita: una crudelissima e strampalata congrega vuole vampirizzarne la luccicanza. Per aiutarla, Danny si ritroverà tra le macerie dell’Overlook Hotel, la spettrale location del primo romanzo, per un’ultima sfida infernale… Questo, all’osso, è lo Shining numero 2 ed è una macchina che funziona (luttuosamente, come pretende il genere), ma (eccoci ai due «ma» che vi avevo annunciato) nel romanzo si sente la mancanza del grande Jack Torrance, il non-scrittore maledetto figura decisiva del numero 1, e manca, ancora, l’angosciosa claustrofobia del vecchio Overlook. Detto questo, onore a Stephen King per aver affrontato il fantasma che fa più spavento di tutti, il fantasma di se stessi.