Nadia Urbinati, la Repubblica 17/2/2014, 17 febbraio 2014
ARENDT: HITLER ERA SOLO UN CLOWN NON UN DEMONE
«Non ci sono pensieri pericolosi per la semplice ragione che pensare è in se stesso un’impresa pericolosa». Così Hannah Arendt rispondeva a Roger Errera in una delle ultime interviste da lei rilasciate, pochi mesi prima di morire il 4 dicembre del 1973. Una risposta socratica alla domanda del giornalista francese sul “Watergate” (il più pericoloso caso di tentativo tirannico sul suolo americano, secondo Arendt), esempio della trasformazione dell’eccezionalità emergenziale in una pratica ordinaria di arbitrio che nel nome della sicurezza nazionale celava, nascondeva e, soprattutto, spiava ignari cittadini. Una riflessione che torna di grande attualità nel nostro tempo, quando l’autore delle rivelazioni sullo spionaggio americano di milioni di cittadini in tutti i paesi del mondo può meritare il premio Nobel per la pace. The Last Interview and Other Conversations (Brooklyn e Londra, Melville House) è un piccolo libro prezioso che raccoglie conversazioni, in parte già pubblicate in parte inedite, concesse da Arendt fra il 1964 e appunto il 1973. In uno stile colloquiale, allegro a volte, ironico.
La prima, con Günter Gaus, è forse la più toccante, dedicata alle sue varie dimensioni di estraneità, a cominciare da quella dell’essere stata condannata a vivere senza poter usare la propria lingua, dovendo contare sempre su correttori di stile. Nella prima domanda Gaus le chiede un commento sull’essere «la prima donna» delle conversazioni filosofiche da lui curate, la prima esponente del suo genere a svolgere «un’occupazione veramente maschile», quella della filosofa. La domanda — come percepisce «il suo ruolo nel circolo dei filosofi» così inusuale o peculiare per una donna? — riceve una risposta complessa che non riesce a celare il fastidio di Arendt: «Mi dispiace ma devo protestare. Io non appartengo al circolo dei filosofi. La mia professione, se ha un qualche senso usare questa espressione, è la teoria politica... Circa l’altra questione: lei dice che la filosofia è generalmente pensata come un’occupazione maschile. Ma non deve restare tale! È assolutamente possibile che una donna sia filosofa». Arendt non amava fare del genere un “noi” (non amava nessun “noi”) né pensava che il genere dovesse essere una specificazione del pensiero filosofico. La sua risposta, apparentemente così di buon senso, descrive benissimo il suo atteggiamento mentale possibilista e anti-determinista: che senso ha pensare che ciò che è stato ieri sarà così anche domani?
All’altra risposta, quella sulla filosofia, dedicava molte più parole, e anzi l’intera conversazione (come la sua produzione teorica) si può dire che ruoti intorno a questo tema: la diffidenza per non dire l’ostilità degli amanti della verità assoluta per la politica — con l’eccezione di Kant che distingueva, come anche lei, “l’essere pensante” e “l’essere agente”. Il filosofo, aggiungeva, può essere oggettivo circa la natura e quando dice ciò che pensa su di essa egli parla certo nel nome dell’umanità. Ma non può essere oggettivo o neutrale circa la politica e quando (dopo Platone) vuole ambire a questo, allora diventa nemico della politica.
La politica rischia quando diventa un dipartimento delle scienze esatte o quando l’aspetto tecnico della gestione dello stato prende il sopravvento sul discorso opinabile dei cittadini: di questo Arendt temeva le conseguenze nefaste, che nell’età dello stato-nazione poteva produrre, come produsse, mostri. Il regime che partorì Eichmann appartenne a questa genia di antipolitica, nella quale il “noi” aveva sopravvento sull’ “io” e un capo si era circondato di esecutori e yesmen, funzionari ed esecutori di comandi. Eichmann, che pensava che il «rimorso fosse adatto ai bambini», non aveva nulla per cui sentire rimorso perché aveva sempre eseguito, era sempre stato un “noi”: di questo funzionario che non sapeva ridere Arendt tratteggia quel che resta forse il suo più importante contributo come teorica politica, ovvero la descrizione di un regime politico nuovo, che non è né tirannia né dittatura, e del quale ella volle sfatare la leggenda sulla “grandezza” satanica di cui, pure, fu capace; una diagnosi che, pensava, avrebbe potuto destare ammirazione come tutte le cose grandi. Hannah Arendt si propose, com’ella spiega, di non semplicemente cercare di capire come fu possibile quel male radicale, ma soprattutto di togliere ad esso e al suo capo ogni aura di grandezza: un clown che fece uccidere dieci milioni di persone circondato di esecutori grigi che non sapevano ridere né di lui né di se stessi. «C’era qualcosa di oltraggioso in quella stupidità... ma nessuna profondità — nulla che fosse demoniaco».