Paolo Berizzi, la Repubblica 17/2/2014, 17 febbraio 2014
I RIMORSI DI CUTRÌ IN CELLA: HO DISTRUTTO LA MIA FAMIGLIA
UNA cella isolata in un reparto ormai dismesso, l’unico detenuto è lui. Un piccolo cortile punteggiato da ciuffi d’erba dove, nell’ora d’aria che si schiude in una ferrosa mattina di inverno, cammina da solo e dice: «È tutta colpa mia, maledetto quel giorno e quello che è successo». Lo ripete due volte. «Mea culpa, mea culpa».
COME se dovesse accorciare l’imbarazzo, ché adesso c’è da racchiudere una sofferenza collettiva, familiare. Parla per la prima volta, dal carcere di Opera, Domenico Cutrì, detto «Mimmo» o «il calabrese », l’ergastolano protagonista della sanguinosa evasione sulle scale del tribunale di Busto Arsizio.
Erano le tre del pomeriggio del 3 febbraio, due settimane fa. Con alle spalle una rovinosa fuga tra Lombardia e Piemonte durata solo sei giorni, un fratello (Antonino) morto per liberarlo e un altro fratello (Daniele) anche lui finito dietro le sbarre insieme agli altri cinque complici di una banda sgangherata coinvolta in un piano alla Vallanzasca — ma qui la pasta criminale dell’evaso è diversa — Cutrì accetta di incontrare l’ospite in visita nel carcere di Opera. È il senatore di Sinistra e Libertà Daniele Farina. Il parlamentare milanese, da sempre sensibile alle problematiche dei detenuti e degli istituti di pena, sceglie la quiete della domenica per effettuare un sopralluogo tra i padiglioni del carcere di massima sicurezza. Qui il concetto di evasione è decisamente relativo, ma, di contro, le rigidissime misure restrittive e il mal di vivere dietro le sbarre hanno fatto da sfondo a numerosi suicidi, tra detenuti e guardie carcerarie. «Mi sono studiato le carte e la vicenda di Cutrì, ho voluto incontrarlo perché immaginavo che, per quello che ha fatto e per una serie di conseguenze facilmente intuibili, potesse trovarsi in una situazione delicata, non solo psicologica », spiega Farina.
Sono le 11 e Domenico Cutrì sta passeggiando nel cortiletto durante l’ora d’aria. È uno spazio molto ridotto, recintato da un muro, riservato soltanto a lui che è sorvegliato 24 ore su 24. Accanto al cordolo è cresciuta una striscia di prato. «Buongiorno...». Il 32 enne di Inveruno si riprende lo sguardo perso nel vuoto e accoglie il parlamentare, accompagnato dal direttore del carcere, Giacinto Siciliano, e da due agenti. È il settimo giorno trascorso qui dentro: l’ergastolano è arrivato il 9 febbraio dopo un breve passaggio nel carcere di Busto Arsizio. «Come sto? Male. Penso a quello che è successo e non mi dò pace. Non posso prendermela con nessuno se non con me stesso. La colpa di tutta questa storia è soltanto mia, mia e di nessun altro».
Cutrì indossa i pantaloni di una tuta, scarpe sneakers e un giubbino grigio. Non è trasandato ma non è nemmeno curato come molti dei 1.300 detenuti definitivi (su un totale di 1.400) reclusi a Opera. Lui farebbe parte dei cento in attesa del terzo grado di giudizio: perché la sua condanna all’ergastolo per l’omicidio di Trecate (nel 2006 ha fatto uccidere un giovane polacco per uno sguardo di troppo alla sua fidanzata) ad aprile va in Cassazione. È iniziato tutto da lì, da quella condanna. «Io sono innocente, con quella storia non c’entro niente», spiega Cutrì ribadendo un concetto già riferito e riportato più volte («e non per difesa d’ufficio») dal suo legale, l’avvocato Roberti Grittini.
Dell’innocenza di Mimmo era straconvinto anche il fratello Antonino: fino a farne un’ossessione. Fino a mettere su un commando per liberarlo approfittando del passaggio al Tribunale di Busto. «Sono distrutto per la fine che ha fatto Nino (ucciso da uno dei 32 proiettili esplosi durante il conflitto a fuoco tra la banda Cutrì e gli agenti di scorta). È morto per colpa mia. E nessuno me lo può restituire ». Farina vorrebbe chiedere all’ergastolano se è pentito di quello che ha fatto. Cutrì lo anticipa. «Con la mia vicenda, con tutti i miei casini ho distrutto la mia famiglia. Li ho trascinati in un vortice di dolore che non finirà mai. Nino morto, Daniele in carcere (il fratello più giovane, 23 anni, anche lui detenuto a Opera). Penso a mia madre e a mio padre, e a mia sorella... Spero di incontrarli presto».
Cutrì è in regime di isolamento. Di fatto è controllato come un detenuto A. S. («alta sicurezza»), pur non essendo registrato con questo codice che qui viene utilizzato per i 41 bis e i detenuti cosiddetti speciali (da Totò Riina a Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi). Si teme possa compiere atti di autolesionismo e, almeno in questa prima fase detentiva, lo hanno messo in un padiglione «distaccato ». Quello del vecchio reparto di isolamento che nella ristrutturazione del carcere verrà convertito in un’area diversa. I lavori sono già iniziati. La cella di Cutrì è l’unica tenuta, anzi, rimessa in funzione. È senza numero.
Domenico passa le giornate leggendo e scrivendo lettere. «Voglio che la mia famiglia sappia che sono l’unico responsabile di quello che è successo. Mea culpa». Sua dunque, non di «Nino» il fratello che a tutti, familiari, complici, amici ripeteva come un ossesso che «io Mimmo devo liberarlo, non può stare in carcere». Era diventata una missione. Nino voleva vendicare l’»ingiustizia» subita dal fratello di cui era anche ammiratore. Prima latitante (per tre anni) e poi condannato a «fine pena mai». Adesso Mimmo parla del suo presente e del suo futuro. Il presente è un «senso di colpa lacerante», ma nel futuro si sforza di immaginare uno spiraglio di luce. «So di avere commesso degli errori, so di avere fatto cose che non valeva la pena fare. Ma non voglio finire i miei giorni dietro le sbarre, a 32 anni non posso immaginare di morire qui dentro». Cutrì è seguito da uno psichiatra e da due psicologi. Forse si sente più al sicuro adesso di quando, braccato come un cane, e spalleggiato da una banda di amici e fratelli un po’ troppo fragili e superficiali per aiutare un evaso in fuga, cercava di far perdere le sue tracce tra case di corte e covi rimediati all’ultimo. «Qui dentro sono stato accolto molto bene, voglio ringraziare il direttore e le guardie carcerarie», dice Cutrì prima di rientrare in cella. Parole che a Daniele Farina sono sembrate non rituali. Contro gli agenti della polizia penitenziaria che lo scortavano, la banda Cutrì ha rovesciato una pioggia di proiettili. Erano appena due settimane fa.