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 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

IL PREMIER PIÙ GIOVANE NEL PAESE DEI VECCHI


ECCO, adesso è fatta. Con l’incarico di formare il governo a Matteo Renzi, che ha 39 anni, bene o male che vada si conclude solennemente e definitivamente l’incredibile commedia a sfondo biologico e psicopatologico che ha deliziato e straziato l’Italia comunque trasformandola nel paese con la classe politica più anziana del mondo.
“Berlusconi ha l’età di mia nonna!” è stato il grido di battaglia dell’imminente premier.

CHE pure non si è risparmiato integrando il crudo format della rottamazione anche a Bersani “che ha l’età di mio padre!”, disse anche il giovane Renzi, non a caso detto “Il Bimbaccio”, o “Giocagiò”, o “Giamburrasca” — quest’ultimo soprannome conio dell’illustre professor Sartori, fiorentinissimo, e anche per questo ben consapevole che le mascalzonate dell’irresistibile personaggio di Vamba erano tutte sistematicamente rivolte al mondo degli adulti e anche dei vecchi, se proprio bisogna dire.
Per metterla più alata. Da oggi, osservando i palazzi del potere, non ci si potrà più abbandonare a Durkheim: “Gli antichi dei invecchiano e muoiono, e i nuovi non sono ancora nati”. Nei prossimi giorni il presidente del Consiglio più giovane della storia italiana giurerà nelle mani del presidente della Repubblica più anziano; e tra questi due estremi ogni curioso calcolo ha da stamattina pieno diritto di cittadinanza, essendo la matematica del comando forse l’unico vero strumento per certificare l’entità della svolta.
Quando nel 2006 Prodi (allora 66) e Berlusconi (69) si presentarono per la seconda volta alla conquista di Palazzo Chigi, facevano insieme 135 anni, ma il dato numerico che già allora fece impressione è che con tale cifra ci scappavano tre aspiranti premier 45enni. Con le sue 39 primavere Renzi batte di pochi mesi solo Mussolini; e seppure qui sembra di cogliere l’eco di “Giovinezza giovinezza”, non esattamente propizia, è pur vero che nel momento in cui raggiunsero il potere John Kennedy, Tony Blair, Felipe Gonzales avevano più o meno l’età di Renzi.
E non è stato facile, se solo si pensa che da almeno un ventennio il sistema mediatico, che per sua natura nutre irrefrenabili cannibaliche, reclamava carne fresca, ma niente, non c’era plausibile ricambio che rispondesse a quella pressante richiesta. Forse perché i vecchi erano davvero fantastici nella loro smisurata voglia di resistere. De Mita disse una volta che il più serio aiuto che lui poteva offrire all’ansia di rinnovamento era né più né meno che invecchiare, e aveva anche ragione; mentre Cossiga, colto dai classici cinque minuti, ancora qualche anno fa chiamava Berlusconi “ragazzino”. Quest’ultimo, nel frattempo, si preparava a fronteggiare l’entrata nei settanta perdendosi dietro le minorenni, e vabbè, insomma, c’era davvero di che scrivere e illustrare a Villa Arzilla!
Trapianti, tinture, dentiere, stampelle, pacemaker, torpori, pannoloni e beveroni tibetani, figurarsi; Formigoni improvvisamente vestito come un pappagalletto, capi ex comunisti con le cuffie da DJ alla corte di Diaco, presidenti che si rasavano i peli dei polpacci per fare meno resistenza al vento nelle corse ciclistiche, cosa non ha riservato la questione anagrafica al gentile pubblico non pagante. Già allora, presidente di provincia baby, Renzi fremeva. Ma a vederlo da lontano sembrava uno dei tanti “professionisti della gioventù” che reclamavano spazio per farsi meglio i fatti propri; e si agitavano, reclamavano quote arancioni, firmavano in anticipo impegni a ritirarsi dalle poltrone, quando ancora non ci si erano nemmeno seduti. Annichiliti dall’esempio della Pivetti, presidente a 35 anni e finita in tv con Platinette; confusi con le iniziative benefiche e promozionali dei “figli di” tipo “Milano Young”; oppure scavalcati dalla Meloni, che aveva organizzato qualche festa di Atreju con gli scherzi goliardici al venerando politico di turno, e a un certo punto addirittura un ministero le avevano istituito, e lei si era pure inventata una radio, tutta giovanegiovane, e indovina chi aveva intervistato? Esatto, il presidente Berlusconi.
In realtà, più le culture politiche del secolo scorso resistevano, sia pure in forma terminale e addirittura a livello di simulacri, e meno il tema incandescente del passaggio di generazione riusciva ad imporsi. Eppure, non funzionava più come ai tempi dell’accordo di San Ginesio tra De Mita e Forlani, che poi erano gli stessi che spinsero Longo a saltare i cinquantenni Amendola e Ingrao per scegliere Berlinguer. Non c’entravano più nulla le modalità che avevano portato al potere Craxi e gli altri quarantenni del Psi, né Fini al posto di Almirante e nemmeno i sindaci come Rutelli, Cacciari, Bianco e Bassolino.
In silenzio, evidentemente, cambiavano anche i modelli di autorità. Era un’urgenza più naturale o biologica, se si preferisce, comunque più aderente alla vita nuda che stava prendendo il posto delle ideologie, delle appartenenze, degli interessi, dei radicamenti sociali. Questo Renzi ha capito, solo lui, o lui più di tanti altri, e ne ha fatto un programma e l’ha applicato in modo tanto esclusivo quanto feroce lanciando la rottamazione, che a pensarci bene, applicata agli esseri umani, era una parola terribile. Poi, siccome è anche furbo, ha detto che non voleva, che non era proprio così, tanto che non la pronuncia più. Ma intanto.
Intanto a 39 anni arriva a Palazzo Chigi. Che ci sia riuscito senza “vecchietticidio”, ma facendo le scarpe a un fratello maggiore dice, forse a sua insaputa, che l’Italia rimane un paese molto strano, e che tra nonni, genitori, figli, zii, cugini e cognati comunque s’invecchia tutti, ma pazienza.