Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

IL PRANZO È SACRO, L’AZIENDA PAGA IL CONTO


Dovendo scegliere, un dipendente italiano preferirebbe sempre un aumento di stipendio. Merce rara di questi tempi. Ma se poi lo stesso alza lo sguardo verso altri Paesi europei si accorge che la variabile retributiva non è poi l’unico elemento discriminante per sentirsi gratificato. Sono altri i fattori che concorrono ad aumentare le performance di un dipendente. Sia esso un manager, un quadro o un semplice funzionario. Sono i cosiddetti benefits che un’impresa mette sul piatto per fidelizzare la forza lavoro.
E qui si scopre che in Italia questo fenomeno è circoscritto ad una sola voce: rimborsi per buoni pasto o servizio mensa. In questo caso, l’unico a dire la verità, siamo imbattibili (99% contro una media europea del 78%). Per il resto, è notte fonda. Dall’indennità di trasferimento (casa/ lavoro) ai servizi di welfare in senso stretto fino agli sconti per iscriversi in palestra, le stragrande maggioranza delle aziende italiane risponde picche. Quelle virtuose sono poche, si aggirano intorno al 15%. Un dato irrisorio se confrontato con la media europea che supera il 50%.
«L’assenza di questo tipo di benefit dipende in parte da un fattore culturale, perché il nostro tessuto imprenditoriale è costituito perlopiù da piccole aziende e il “padrone”, per tradizione, non si vuol far carico di questi servizi — osserva Filippo Abramo, presidente dell’Aidp (Associazione italiana per la direzione del personale) — Detto questo, bisogna però considerare anche un fattore oggettivo: per una Pmi offrire servizi aggiuntivi ha un costo. Perché la variabile del cuneo fiscale pesa su qualsiasi voce della retribuzione».
Non a caso, fa notare Abramo, il buono pasto resta un punto di forza tra i benefit offerti dalle aziende. Il motivo è semplice: non è tassato, quindi l’incentivo funziona. Eccome. Lo stesso non si può dire sui benefit meno tradizionali: tra i quali asilo nido, scuola materna, dopo scuola aziendale, sconti per l’iscrizione in palestra e così via. «È dimostrato che l’assegnazione di questi incentivi comporta un aumento nella produttività di un’azienda », puntualizza il presidente.
Altrettanto marginali sono i programmi a sostegno dei dipendenti, primo fra tutti la possibilità di ottenere prestiti, la concessione di mutui a tassi agevolati, sussidi scolastici o borse di studio a beneficio di familiari. «Sicuramente, l’attuale contesto economico non aiuta — sottolinea Abramo —. In passato, ottenere un anticipo sul Tfr o sullo stipendio era possibile. Oggi, è obiettivamente più difficile. Per quanto riguarda, invece, i sussidi scolastici o borse di studio le percentuali sono così basse a causa di un retaggio storico. Prima del ‘68, questo era un servizio comunemente offerto. In particolare, dalle grandi imprese come Fiat e Pirelli, solo per citarne due. Dopo quel periodo — aggiunge — i sussidi vennero eliminati su spinta del sindacato che li considerava “servizi paternalistici”. La loro tesi era che quegli incentivi dovevano essere versati dallo Stato. Oggi che lo Stato non può più garantirli, si chiede di nuovo all’impresa di intervenire».
Un’altra criticità storica riguarda i fondi pensione. L’Italia ha un primato negativo rispetto alla media europea (38% contro 72%). «Nel breve periodo, questa forbice difficilmente si ridurrà — ammette Abramo — perché nel nostro Paese quando si parla di pensioni, si guarda subito al pubblico. Almeno questo accade tra gli operai e gli impiegati. Da parte loro continua ad esserci una forte diffidenza nei confronti dei fondi pensioni. E le turbolenze finanziarie degli ultimi anni non hanno certo aiutato a sviluppare questo strumento».
Infine, l’ultima nota dolente riguarda il telelavoro. Anche in questo caso, l’Italia detiene la maglia nera rispetto alla media Ue, in qualsiasi livello aziendale: esecutivo (23% contro 46%), direzionale (23& contro 48%), professionisti (25% contro 51%). «E’ un grave problema perché questo dimostra che nel nostro Paese sopravvive una cultura imprenditoriale tayloristica — conclude Abramo —, che risponde ad una massima: comando, quindi controllo. Oggi, questo modo di dirigere un’impresa non ha più senso, soprattutto dopo l’esplosione dei nuovi dispositivi mobile. Chiunque può lavorare da casa senza diminuire la propria performance. Anzi, come dimostrano i Paesi del nord, il telelavoro contribuisce ad aumentare la produttività perché un dipendente in questo modo si sente più responsabilizzato». (v.d.c.)