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 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

LULULEMON UN DISASTRO LE GAFFE DEGLI HOT PANTS


Sul magazine The New Yorker, James Surowiecki racconta l’esilarante infortunio in cui è incappata la marca Lululemon. Per chi non lo sapesse, Lululemon è un fenomeno legato alla moda dello yoga. Vende anche abiti per altre discipline sportive, ma la sua clientela privilegiata sono le signore benestanti che in palestra fanno yoga, pilates, zumba, ginnastica acrobatica, danza ritmica, ecc. A loro Lululemon è riuscita a vendere con dei sovrapprezzi fenomenali i suoi capi d’abbigliamento: tutine, pantaloncini aderenti, tappetini per lo yoga e ogni sorta d’accessorio. In un settore affollato di concorrenti, Lululemon era riuscita a diventare la griffe di lusso, i suoi negozi sono diventati dei luoghi di culto, dove commesse giovanissime si esibiscono in vetrina in pose di yoga molto osé. Lo yoga-sexy, insomma. Poi qualcosa è andato storto. Una gamma di pantalocini superaderenti si è rivelata anche troppo sexy. Le signore un po’ sovrappeso, indossandoli, erano costrette a dilatarli a tal punto che i pantaloncini-collant diventavano quasi trasparenti, e durante il corso di yoga le malcapitate esibivano un po’ troppe nudità. Ma il peggio è accaduto quando le prime clienti hanno cominciato a protestare. Il fondatore e chief executive dell’azienda, Dennis Wilson, ha reagito malamente, dichiarando che alcune donne sono troppo grasse per indossare le tutine Lululemon. Ahi. Non si scherza con la ciccia delle signore. Le vendite di Lululemon hanno cominciato a declinare, Wilson si è dovuto scusare e alla fine si è dimesso. La marca sta cercando di rilanciarsi sotto un altro management.
La lezione che ne trae il New Yorker s’ispira a un recente saggio di management, “Absolute Value” (Valore Assoluto), scritto dal docente di Stanford Itamar Simonson e dall’imprenditore hi-tech Emanuel Rosen. Questo libro teorizza il “tramonto dei brand”. Partendo da una constatazione storica. I brand, cioè i marchi, ebbero un ruolo insostituibile in un’èra di scarsità dell’informazione. Dagli albori del capitalismo fino alla fine degli anni Novanta, molti consumatori per giudicare la qualità di un prodotto dovevano affidarsi a strumenti limitati: l’esperienza personale con altri prodotti, la pubblicità, il passaparola. Perciò il marchio aveva una funzione essenziale, era un deposito di informazioni. Per alcune generazioni, l’americano medio ha avuto buone ragioni per ritenere che un’automobile Ford fosse un prodotto affidabile. Idem per un biscotto Nabisco, o un ketchup Heinz: quei marchi evocavano esperienze passate che erano state soddisfacenti. Era la “lealtà al marchio”: 25 anni fa l’80% degli americani aveva una fedeltà totale alla stessa marca di automobile. Ma Internet ha dato ai consumatori accesso a una quantità d’informazioni inaudite: siti specializzati, social network, pareri di altri consumatori. Uno studio di PricewaterhouseCoopers rivela che l’80% dei consumatori consulta le recensioni online prima di fare acquisti. La fedeltà al marchio scompare rapidamente. Resistono dei brand speciali: la Coca Cola è un marchio che s’identifica con un singolo prodotto ancora fortissimo; Apple riesce a estrarre prezzi superiori agli smartphone Samsung (anche se ne vende meno); le grandi marche del lusso made in Italy sono associate con una qualità estetica finora ineguagliata. E tuttavia queste ormai sono eccezioni. In un’altra indagine, di Ernst&Young, solo il 25% dei consumatori americani si dice influenzata da qualche forma di lealtà a un marchio. E così basta una sola gaffe, come quella del fondatore di Lululemon, per mandare a picco un marchio che sembrava fantastico.