Francesco Chiamulera, Il Fatto Quotidiano 17/2/2014, 17 febbraio 2014
LE FIRST LADY INVISIBILI DELLA PRIMAVERA ARABA
Una fotografia, scattata a fine anni Novanta, che da sola dice molto. Una simbiosi, un legame umano, un’intesa tra anime. Rahsan Ecevit, moglie dell’allora primo ministro turco Bülent Ecevit, che appoggia il capo reclinato sulla spalla di suo marito, come mille altre volte la si era vista fare. Un’intimità pubblica, incisa nella dolcezza dei modi e dei gesti: così, sognante e abbandonata, non ricorda un po’, Rahsan, la donna che Picasso ritrae in Le rêve, il sogno?
Ma l’immagine di Ecevit, donna laica e colta, compagna di un uomo di Stato che padroneggiava il sanscrito, scriveva poesie, traduceva opere di Bernard Lewis e T.S. Eliot, dice anche di un’estetica occidentalizzante che sembra sempre più lontana. C’è un passato e un presente, nell’aspetto pubblico delle first lady dell’Islam. Come certi scatti di Ara Güler, il fotografo turco più conosciuto, l’immagine di Rahsan è un’istantanea di un mondo ormai velato da una patina color seppia. La moglie dell’attuale primo ministro Erdogan, Emine, è infatti la prima da novant’anni a questa parte a portare fieramente l’hijab, il velo che lascia scoperto il viso ma che copre il resto del capo. Segni consistenti della nuova rotta imboccata dal paese da quando l’Akp, il Partito giustizia e sviluppo, ha vinto le elezioni del 2002, portando per la prima volta all’opposizione gli eredi del kemalismo, stretti angosciosamente intorno all’eredità di un leader - Atatürk - che a settant’anni dalla morte è ormai soltanto un simbolo. Guardare, oggi, al modo in cui si conducono le mogli e le compagne dei leader ha un significato tutt’altro che voyeuristico. Perché l’universo femminile di quei paesi trae da loro ispirazione.
PROGRESSO E REGRESSO Non è passata inosservata, ad esempio, la scelta del presidente iraniano Hassan Rohani di far passare molto inosservata... sua moglie. “Who is Iran’s new first lady?”, si chiedeva Radio Free Europe a luglio. Dopo lady Ahmadinejad (il quale, pur tra le celebri intemperanze antisemite, aveva spesso la moglie al fianco), che volto ha la misteriosa consorte del leader che molti giornali occidentali hanno salutato come il “riformista”, il “moderato”, ma che non la porta mai con sé nelle occasioni pubbliche e che l’ha sposata con matrimonio combinato quando lei aveva quattordici anni? La prima foto “leaked” di Sahebeh Arabi Rohani è così comparsa sul web in gennaio: un breve spicchio di volto nel chador. Ma la sua apparizione pubblica si ferma a questi pochi scarni tratti. Anche Naglaa Mahmoud, la moglie del deposto presidente egiziano islamista Mohamed Morsi, indossa il chador: una rottura con la consuetudine delle consorti dei predecessori , vestite all’occidentale. Ha anche rifiutato l’appellativo di “first lady”. “Chiamatemi Umm Ahmed”, ha detto alla stampa: letteralmente, è la madre di Ahmed. La madre di Ahmed è lontana dall’Egitto da rotocalco di qualche decennio fa, quello in cui Fawzia, principessa andata in sposa allo Scià Reza Pahlavi, compariva nel 1942 su una celebre copertina di Life, e poi in una (bellissima) foto dei 1950s, molto glamour con gli occhiali da sole, insieme al compagno di allora. Intanto, in alcuni paesi del Maghreb, dalla tradizione più secolare, le donne del potere continuano a mostrarsi in pubblico abbigliate in modo inequivocabilmente occidentale. Ma ci sono novità. Se la principessa del Marocco Lalla Salma è stata ritratta al fianco di re Mohammed VI con un intento insieme celebrativo e amichevole - la famiglia reale che accudisce i bambini e che veste in modo quasi borghese, in jeans e t-shirt - la nuova coppia presidenziale tunisina è nota per il basso profilo. La moglie del neopresidente Moncef Marzouki, Beatrix Rhein, è molto più sobria di Leila Trabelsi, consorte del predecessore, l’ex dittatore Ben Ali, la quale amava le copertine dei settimanali.
LA DIPLOMAZIA STILE VOGUE Nessun equivoco, e nessun manicheismo, comunque, sul significato infinitamente complesso, spesso sfuggente, della “scelta del velo”. Per quanto l’abitudine di coprirsi sia in crescita presso le élite pubbliche del mondo islamico, è vero che la stampa occidentale, alla ricerca ossessiva di eccezioni e novità, è incorsa in questi anni in incidenti clamorosi. Uno su tutti: nel marzo 2011 un articolo di Vogue incorona con toni a dir poco encomiastici l’eleganza algida, filiforme, di Asma al-Assad, nata Akhras, moglie di Bashar, volitiva first lady siriana. Un ritratto privo di ombre: ha studiato nel Regno Unito, lavorato nella finanza londinese, è quella che gli americani chiamano una “shopaholic”, un’acquirente compulsiva. Ma, soprattutto, è nel mondo arabo la first lady più “moderna” e trendy di sempre. Salvo poi rivelarsi complice, con il marito, delle efferatezze compiute dalle forze governative durante la guerra civile. E cadere con lui in disgrazia su quegli stessi media che prima la salutavano come “una rosa nel deserto”, e che ora ne rivelano le agghiaccianti battute di fronte ai massacri.
EMANCIPAZIONE AL CONTRARIO La situazione è dunque molto complessa, quasi incoglibile nelle sue tante sfumature. Forse, per usare una categoria cara alla psicanalisi, ha a che fare con il “rimosso”. Operando una brusca rottura con secoli di copertura e segregazione del femminile, nella prima metà del Novecento molte società islamiche si volgono allo stile di vita del mondo moderno. Ma il cambiamento è brusco. E, insieme con la segregazione, molti aspetti di privata tolleranza, di affetto familiare, di protezione del femminile, cadono in un colpo. Come racconta Irfan Orga in “Una famiglia turca” (Passigli), pensando alla sua infanzia di privilegiato dell’élite ottomana, a volte il trauma può essere peggiore della continuità. In un caffè di Beyoglu, il quartiere più europeo di Istanbul, davanti alle finestre del Modern Art Museum che si affacciano sul Bosforo, una giovane turca di oggi, Begum, guarda due immagini di Latife Ussaki, la moglie di Atatürk. La prima fotografia la ritrae prima della riforma dell’abbigliamento del 1923, con un hijab che lascia intravedere il volto soltanto. Poi, come per un incantesimo, ecco Latife solo due anni dopo, vestita come una qualsiasi donna europea del tempo. “Questo mi ricorda di una scena che ho vissuto solo qualche anno fa, con mia madre”, dice Begum, che viene da una famiglia laica, ha studiato negli Stati Uniti e lavora presso una grande società turca. “Eravamo in un ufficio. C’era una donna velata. Mia madre, che mi aveva sempre insegnato a diffidare di “loro”, persino a cambiare lato della strada se le avessi incontrate in giro, ci scambiò alcune parole. Uscendo mi disse: ‘sai? Anche se aveva il velo, quella signora era una brava persona’. Ecco, questo doveva cambiare. Doveva venire il momento. Al netto dei suoi errori, il velo esibito dalla moglie di Erdogan ha fatto qualcosa di positivo per i milioni di donne che restavano fuori dagli uffici pubblici, dalle università, dai ristoranti. In un certo senso le ha desegregate”.