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 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

I MILITARI NEL MONDO ARABO LE ATTENUANTI DI SADDAM HUSSEIN


Non pensavo che lei sostenesse la presenza dei militari (o presenze forti) al potere nel mondo arabo mediorientale. Questi, -diciamo così- tutori della stabilità in quelle aree, sono visti, infatti, da nostri intellettuali impegnati, come una presenza quasi dittatoriale di stampo sudamericano in contrasto con il popolo. Nella mia esperienza, come responsabile dell’operatività degli aeroporti di quel bacino mediterraneo per l’Alitalia, ho potuto apprezzare, invece, quella discreta presenza, proprio come una difesa di una certa libertà individuale che, purtroppo, anche per colpa diretta di qualche nazione europea, è svanita, aprendo le porte ad un a-storico fondamentalismo dilagante. Incomincio a parteggiare per Saddam… E lei?
Roberto Pepe
robertopepe@teletu.it

Caro Pepe,
Non «sostengo» i militari del Medio Oriente. Mi limito a constatare che vi sono state numerose circostanze in cui hanno assicurato la stabilità del regime, contribuito alla formazione di una identità nazionale e garantito gli impegni internazionali assunti dal loro Paese. Gli israeliani, per esempio, sanno di dovere all’esercito egiziano, negli anni di Mubarak, la relativa sicurezza del Sinai e il controllo delle frontiere della Striscia di Gaza. Quanto a Saddam Hussein, credo che, accecato dal potere, fosse divenuto col passare del tempo sempre più tirannico, prepotente, brutale e poco incline ad ascoltare i consigli dei suoi collaboratori. Ma nel caso del Kuwait, che l’esercito iracheno invase nell’agosto del 1990, l’uomo forte di Bagdad non era interamente dalla parte del torto.
La sua lunga guerra contro l’Iran, dal 1980 al 1988, aveva avuto l’approvazione implicita degli Stati Uniti e quella esplicita degli Stati sunniti del Golfo Persico. Il piccolo Kuwait (un villaggio di pescatori che il colonialismo britannico aveva trasformato in una importante stazione di transito sulla via dell’India) non era in grado di combattere. Ma la straordinaria ricchezza petrolifera, scoperta verso la fine degli anni Trenta, fece di questo piccolo regno l’ufficiale pagatore del conflitto. Alla fine della guerra, nel 1988, i prestiti concessi dal Kuwait all’Iraq ammontavano a una somma che si aggirava fra i dodici e i quattordici miliardi di dollari.
Il creditore chiese la restituzione del denaro e il debitore replicò accusandolo di estrarre quantità di petrolio molto più elevate (fra il 30 e il 40%) delle quote fissate dal cartello dei produttori (Opec), con effetti sui prezzi che riducevano considerevolmente le entrate irachene. Quattro mesi prima dell’invasione, nel giugno del 1990, Saddam approfittò di un vertice arabo a Bagdad per dichiarare: “Le guerre si combattono con i soldati, e i danni che ne derivano sono provocati da esplosioni, uccisioni, tentativi di colpo di Stato. Ma si può fare del male anche con mezzi economici. A coloro che non intendono fare la guerra all’Iraq, ricordo che anche questa è guerra”. Il punto più critico della crisi fu raggiunto quando il prezzo del petrolio scese a 11 dollari il barile e l’Iraq non ebbe più denaro per riparare i danni provocati dalla guerra con l’Iran, pagare gli interessi sui debiti e ricostituire le scorte militari. Aggiungo, caro Pepe, che durante una infelice conversazione con Saddam, l’ambasciatore americano gli dette la sensazione che gli Stati Uniti non fossero particolarmente interessati al modo in cui l’Iraq avrebbe aggiustato i conti con il suo vicino.
Non tutte le responsabilità del conflitto, quindi, furono dell’Iraq. Ma queste attenuanti vennero dimenticate quando il mondo constatò la brutalità delle truppe irachene nel Paese occupato e la vandalica distruzione dei pozzi del Kuwait durante la loro ritirata.