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 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

GIAMAICA, LA FELICITÀ DI ARRIVARE ULTIMI


Da Bob Marley al bob a due, ne è passato di ghiaccio sotto i pattini dei giamaicani ai Giochi, sono stati pionieri (Calgary ’88 ma con l’equipaggio a quattro), poi un film (Cool runnings), hanno giocato all’Olimpiade fino al 2002 e marcato visita a Torino e Vancouver, i toboga in cui l’energia caraibica dei fratelli col raffreddore di Usain Bolt è mancata. Dove c’è Giamaica c’è reggae, anche quassù ai 4 gradi (90% d’umidità) di Sanki: il budello dove la slitta di Zoeggeler ha lasciato il segno adesso è terra di conquista dei bobbisti, gente massiccia e ingrugnata, russi, svizzeri e americani dominano le prime due manche del bob a due e in fondo, come da pronostico, ma proprio in fondo alla classifica, la simpatia di Winston Watts, 46 anni, (pilota) e Marvin Dixon (uomo di spinta e frenatore), arrivati dalla Giamaica per provare a scongelare l’Olimpiade.
Sono sgarrupati, simpatici, scanzonati come il primo Bolt, partono senza guanti e senza vergogna, con la visiera penzolante, sbatacchiano qua e là con un vecchio arnese dipinto di nero e giallo. Prima di loro sfrecciano il bob inglese studiato dalla McLaren, quello tedesco disegnato da Bmw, Bertazzo e Fontana (15esimi dopo due manche) usciti dalla galleria del vento della Ferrari ma per nulla contenti della prestazione, atleti seri, mica qui per fare del turismo: «I giamaicani? Persone deliziose, ma li incontriamo una volta ogni quattro anni… Sono venuti a far giostra, diciamolo». Un po’ è vero. Per vederli c’è gente che sennò a Sanki non sarebbe mai salita, tutte le tv vogliono intervistarli e loro ci stanno, eccome se ci stanno: dopo Calgary entrarono in un celebre spot della Fiat, magari salta fuori qualcosa di buono anche da Sochi. Winston, ad esempio, è senza lavoro, e lo spottone dell’Olimpiade, preceduto dalla grancassa della colletta online e delle donazioni (oltre 80 mila dollari), arricchito dall’aneddotica dei bagagli rimasti a New York e del bob per gli allenamenti prestato dai rivali, fa gioco. «La vera vittoria è essere in Russia, all’Olimpiade. Siamo gente seria. Vogliamo testimoniare che la Giamaica è viva, non c’è solo Bolt». La verità è che senza il Lampo, senza la sua spinta morale e materiale, i suoi tweet, l’eco del personaggio che rimbalza da Kingston a Sochi («A quante domande su Bolt abbiamo risposto? Un miliardo! L’uomo più veloce del mondo ci servirebbe ad andare più forte, il problema è che odia il freddo…»), Watts e Dixon non sarebbero qui. Vestono Puma, non a caso. Si allenano a Calgary, poco, o dove capita. C’è molto marketing in questa operazione nostalgia compensata dall’affabilità del duo e, forse, briciole di futuro: «I soldi che ci avanzeranno li useremo per portare giovani giamaicani al bob. A Pyeongchang sarà tutto diverso, vedrete». Stasera terza e quarta manche, per le medaglie che non li riguarderanno affatto. Poi si torna alla vita reale, sull’isola. «Lavoravo in una compagnia di gas — racconta Winston —. Ora dovrò cercare qualcos’altro per mantenere la mia famiglia…». E giù una risata fragorosa .
Felicità è arrivare straultimi, a 4’’41 dal podio (nel bob, un’enormità). A De Coubertin, Wintson e Marvin sarebbero piaciuti.
g.pic.