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 2014  febbraio 17 Lunedì calendario

IL MADE IN ITALY SUL PODIO MONDIALE


Ha senso continuare ad affermare che le imprese italiane fanno poca innovazione, investono poco, sono poco aggressive sui mercati esteri? Guardando agli ultimi dati del Trade Performance Index dell’Unctad-Wto si direbbe proprio di no. L’Italia, infatti, è seconda solo alla Germania per numero di migliori piazzamenti nelle 14 classifiche 2012 di competitività relative ad altrettanti settori del commercio mondiale.

E in Europa, Germania e Italia fanno letteralmente il vuoto dietro di loro. Il terzo Paese europeo più competitivo, l’Olanda, può vantare solo tre secondi posti, un terzo e un quarto posto, per quanto riguarda i piazzamenti di vertice, contro tre primi posti, tre secondi posti, un terzo posto e un sesto posto dell’Italia. Nelle graduatorie Unctad-Wto, poi, Svezia, Francia e Finlandia seguono ancor più distaccate.
Se, inoltre, consideriamo i 935 prodotti in cui, secondo l’Osservatorio Fondazione Edison-GEA, l’Italia è prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero, possiamo notare che ben 415 di tali beni appartengono a settori innovativi della meccanica e dei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli e che tali 415 beni hanno generato nel 2012 un surplus con l’estero pari a 95 miliardi di dollari.
I rilievi critici più comunemente rivolti alle imprese da parte della "politica", e spesso provenienti anche da istituzioni e centri studi blasonati, fanno parte di un bagaglio antico di luoghi comuni che si sono accumulati negli ultimi 15-20 anni e che non tengono conto in alcun modo delle profonde modificazioni strutturali che hanno interessato il sistema manifatturiero italiano. Quest’ultimo è continuamente accusato di avere imprese troppo piccole e sottocapitalizzate, incapaci di competere nel nuovo scenario globale e di esportare nei mercati extra-Ue; di essere un sistema produttivo non abbastanza "moderno" e di non fare abbastanza ricerca e innovazione; di avere una specializzazione "sbagliata" nel commercio mondiale (cioè di produrre beni troppo simili a quelli dei Paesi emergenti con basso costo del lavoro); di essere poco competitivo e quindi di costituire la vera palla al piede che spiega la bassa crescita del nostro Pil degli ultimi due decenni.
Tutti luoghi comuni che abbiamo persino esportato al l’estero. Tant’è che si ritrovano puntualmente anche nel Rapporto della Commissione europea dell’aprile 2013 sugli squilibri macroeconomici del l’Italia, a cui hanno contribuito in modo determinante - secondo la nostra migliore tradizione autodenigratoria - numerosi estensori italiani.
Ci lamentammo a suo tempo sul Sole 24 Ore (2 luglio 2013) che il Governo non avesse immediatamente protestato con vigore per quelle affermazioni sbagliate sulla nostra scarsa competitività internazionale - affermazioni certificate dall’Ue, e che quindi in quanto tali avrebbero nuociuto gravemente alla nostra immagine, al nostro rating e allo spread. Ma da Roma non si alzò una sola voce. Forse perché molti nostri politici sono loro stessi convinti, purtroppo, che abbiamo un sistema manifatturiero scarso e fatto di imprese incapaci di competere.
Ma è tempo di affermare a chiare lettere che il sistema manifatturiero nella sua grande maggioranza non c’entra nulla con la bassa crescita del Pil italiano, le cui cause sono invece da ricercare in una lunga agonia della domanda interna schiacciata per anni da crescenti tasse (anziché da tagli della spesa pubblica) ed infine dalla terribile austerità del 2012-14. È tempo di respingere definitivamente al mittente l’immagine di un capitalismo italiano in cui le vere imprese sottocapitalizzate (anche in termini di etica e coraggio imprenditoriale) non sono le Pmi o le dinamiche multinazionali "tascabili" cresciute in questi anni, ma quei grandi gruppi nazionali che, diversamente dai campioni tedeschi o francesi, hanno fallito la loro missione, non sono stati capaci di fare innovazione, si sono indebitati e logorati col tempo o hanno persino vissuto di rendita e di commistioni con la politica stessa prima di naufragare miseramente.
Come si può pensare che non sia valido e reattivo un sistema manifatturiero come il nostro che in 20 anni è stato capace di cambiare la sua specializzazione diventando il terzo esportatore netto al mondo di meccanica non elettronica dopo Germania e Giappone? E che in più, nel frattempo, ha conservato con successo anche le fasce di più alto valore aggiunto della moda e dei beni per la casa dove tradizionalmente siamo leader?
Come si può ritenere poco dinamico un sistema produttivo che è stato capace di far crescere il suo surplus manifatturiero con l’estero sino agli oltre 95 miliardi del 2013 non più con le svalutazioni competitive del passato ma con una moneta forte come l’euro? Come si può pensare che facciamo poca ricerca e innovazione quando nel segmento della manifattura oggi per noi più importante, la meccanica, siamo secondi solo alla Germania in Europa per spesa in R&S con oltre 1 miliardo di euro, cifra che peraltro sottostima largamente tanta ricerca informale fatta dalle nostre Pmi?
Ed ancora. Come si può affermare che abbiamo una specializzazione "sbagliata" quando nel 2012, esclusa l’energia, abbiamo avuto il secondo surplus commerciale europeo dopo quello tedesco con i Paesi extra-Ue (63,5 miliardi di euro)? O che le nostre Pmi non sono capaci di raggiungere i Paesi extra-Ue, quando nel 2012 l’Italia ha esportato nei soli primi suoi 37 mercati emergenti 100 miliardi di euro? Come si può continuare ad affermare che perdiamo troppe quote di mercato, quando dal 1999 al 2012 l’Italia è, dopo la Germania, il Paese del G-7 che ha perso meno quote nell’export mondiale assieme agli Usa?
Come si può addirittura pensare che la Lombardia sia davvero al 128° posto per competitività tra le regioni europee (una autentica assurdità scritta anche questa per conto della Commissione europea da altri "cervelli" italiani esportati all’estero)?
In definitiva, ciò che davvero oggi serve all’Italia è: meno luoghi comuni sulle imprese e più azioni incisive di politica economica. Soprattutto su questo dovrà misurarsi il nuovo Governo.