Domenico Quirico, La Stampa 17/2/2014, 17 febbraio 2014
SARAJEVO, IN PIAZZA COI RIBELLI
«Perché perdiamo tempo? Andiamo a bruciare le ville…». Mithad ha il cappuccio in testa e il fosforo negli occhi. E quando li sbarra, quegli occhi! Paiono rubati a un gatto selvatico. Ventisei anni, nessun lavoro. Non ha né padre né madre.
La mamma, «l’ho ammazzata io nascendo…». Il padre se l’è mangiato la guerra contro i serbi, anni Novanta. Mithad: sanculotto bosniacco, ha gettato le molotov che hanno bruciato i Palazzi, rovesciato gli arredi dalle finestre del Potere. Sono quelli come lui che, in passato, hanno raso al suolo la Bastiglia, scardinato il Palazzo d’inverno, incendiato piazza Tahrir. Teppisti? Forse. Ma ci vogliono loro per fare le rivoluzioni, non gli educatini che intervista la Bbc. Solo la loro violenza può dare nerbo alle sommosse blande e un po’ parolaie come questa Maidan bosniacca.
«Dai! Andiamo a bruciarle, le ville. I ladri se la ridono dei vostri coretti». E ha negli occhi un brutto luccicore di fame, si vede bene che per lui questi giorni, dopo la fiammata violenta, di agitazioni e chiacchiere febbrili, sogni acri, dubbi, sconforti, sono tempo perduto. Non lo ascoltano, gli altri giovani restano a scandire slogan davanti alla presidenza ormai vuota. Alle ville, a Pljane, il quartiere degli oligarchi e dei padroni, a cui finora solo in effigie è stata annunciata tempesta e punizione, lo seguiamo solo noi.
Bisogna salir sulla montagna, fuori città, dove i boschi avvolgono le case ben separate l’una dall’altra e l’aria è fresca e leggera, non sudicia di smog come quella di Sarajevo. Un isolamento perfetto dal mondo, impregnato di quiete e di un dolce resinoso silenzio. «Questo prima della guerra era un quartiere di contadini, serbi miserabili, non c’era nemmeno l’acqua corrente. Adesso guarda che roba!». Il terreno prima della guerra costava 1000 marchi al metro quadro, oggi 5000. L’acqua è arrivata e non solo quella. Dopo le balze pettinate del campo da golf la strada sale ripida; telecamere di controllo spuntano da cancellate e siepi, le ville restano quasi nascoste agli sguardi in fondo alle ampie tenute, a fitti boschetti di pini dai tronchi color bronzo e dalle alte chiome frondose. Sì, hai ragione Mithad: quella è vita. Auto della polizia sfilano per le stradine e ci lanciano sguardi sospettosi. Dalle siepi arrivano latrati furenti di cani, non certo gli umili bastardi che si trascinano, a centinaia, per le strade di Sarajevo tramortiti dalla fame.
La gente che abita qui ce l’aveva raccontata Goran Markovic professore di Diritto alla università di Banja Luka, la capitale della repubblica Sprska: «In parte sono persone che prima della guerra apparteneva al lumpenproletariat, rozze, povere… hanno fatto soldi con i profitti di guerra. Altri erano già nella nomenklatura e ne hanno approfittato per privatizzare le imprese e far denaro. E poi ci sono i politici: senza ideologia, che hanno cambiato bandiera mille volte e hanno fondato partiti fantoccio per continuare a fare affari e dominare. Un sistema marcio, che non è possibile riformare».
Mithad si eccita: «Quella è la casa del figlio di Izebegovic, l’ex presidente della guerra, che traffica con gli arabi e fa milioni a palate… e quella appartiene ad Al Shaidi, il magnate che fa costruire la grande torre di vetro in centro… ecco dove son finiti i nostri soldi! Bruciare, bruciare!». Stringe i denti come un soldato sotto i ferri, nel sorriso si mescolano odio e supplica, si vede che gli manca la molotov annichilatrice. Sarajevo si stende sotto di noi. Ovunque a perdita d’occhio, tra le case, le macchie grigie: i cimiteri. Divisi anche qui musulmani e cristiani: dal colore, più chiare le lapidi dei primi, più scure quelle degli altri. Esse hanno visto, esse sanno. Bisognerebbe esser ciechi per non vederli, i fantasmi che ci stanno intorno, un mondo invisibile e popolato: centomila morti. La storia segreta scritta su quelle lapidi è indecifrabile per i non iniziati. Eppure è necessario che quei morti muoiano nei cuori, si cancellino dalla memoria; la polvere di quell’odio non è ancora il nulla e deve essere dispersa per ricominciare: insieme bosniacchi, serbi, croati.
Questa rivolta è l’ultima occasione. La prossima volta Mithad e i suoi amici avranno il tabarro islamista e le bandiere nere del Jihad. Sì, l’islamismo avanza, impregna la società bosniaca con i soldi arabi. Come mi racconta lo storico Slobodan Soja, ex ambasciatore a Parigi e al Cairo, «serbo fedele alla Bosnia». «Ho una casa vicino alla capitale, un tempo villaggio di serbi… sono rimasto, io, gli altri fuggiti. Nelle loro case si sono installati i bosniacchi, musulmani scampati a Srebrenica. I miei vicini sono diventati i miglior amici: mangiavamo e bevevamo insieme, controllavano la casa quando non c’ero, gente splendida, gentile. Poi il capo famiglia, in miseria, disoccupato da anni, ha cominciato a ritirare gli aiuti in denaro che arrivano dai Paesi arabi: si è fatto crescere la barba, accorciato i pantaloni, ha velato la moglie. Mi evita, chiedo spiegazioni… ”sai, scusami ma devo mantenere l’apparenza di islamista, se no i soldi non arrivano più… tu sei serbo, cristiano... devo campare…”».
La locanda balcanica come questa, sulla via per Pale, la «balkanska krcma», è più che un luogo fisico, un luogo per bere e mangiare: è uno spazio della mente, il pensiero che si sviluppa. Dove nascono l’opinione pubblica, le leggende, dove si critica, ci si sfoga, si può esser cattivi, grossolani, implacabili, tutto tipico di una società senza vita politica che cresce dal basso, dove i partiti non rappresentano niente, solo gusci vuoti.
Sanja è bionda e arrabbiata: «Sono triste, abbiamo bruciato bei palazzi, documenti antichi che sono roba nostra. Così tornerà la guerra. Io non lo sopporterei: mi uccido se torna la guerra…».
La rimbecca, aspro, Mujo, sindacalista ormai senza fabbrica, fallita: «Ma sei diventata una di quelle signore di Sarajevo, le madame sempre ben vestite, con la puzza sotto il naso, che mandano a studiare i figli in Inghilterra? Povera Sarajevo qui, povera Sarajevo là, i bei tempi, i palazzi: chi se ne frega dei palazzi! Evviva! finalmente abbiamo compiuto un gesto di santa violenza, abbiamo spezzato il tabù, la paura, con cui i ladri e i politici ci hanno tenuto al guinzaglio per venti anni».
Nella caffetteria dell’università si riunisce il primo Plenum della capitale, copia dell’assemblea popolare inventata a Tuzla: trecento persone, schiacciate l’una all’altra, nel piccolo spazio; gli altri fuori alla pioggia, ad ascoltare. Si affanna il tipo al tavolo della presidenza, testa rotondetta, gira lo sguardo attorno, sembra cercare gli amici e soprattutto i nemici acquattati in lontananze transoceaniche: «Calma, calma… tutti avranno il microfono… dite nome e cognome e quel che volete... in breve».
Tutti scaricano la loro bile e le loro smanie segrete, urlano con la fretta di chi ha i giorni contati.
«Sono un pensionato, ex elicotterista… cacciare i ladri, non c’è altro da fare…».
Applausi.
«Una sola richiesta: fuori dai piedi il governo federale non li vogliamo più vedere…».
Applausi da uragano.
«Vietare le importazioni di prodotti non necessari...».
«Bisogna fissare lo stipendio massimo a 1500 marchi bosniaci compresi quelli dei direttori...».
«Sono d’accordo… ma forse è meglio il tetto di tremila…».
L’uomo al tavolo della presidenza sembra un mago abbandonato dagli spiriti: snocciola parole aride tentando infiammarsi e di infiammare: «Così non va bene, ordine ordine... sappiamo che ci sono degli infiltrati delle spie, ma le scoveremo… mettete per iscritto quello che volete e lo metteremo nel documento finale». Alla fine sbotta un fiacco isterismo, in sala si urla. Il «presidente» sembra chiedersi: ma cosa sto dicendo?
«I parlamentari lavorino gratis fino alle elezioni...».
«Sono un ex comandate della difesa di Sarajevo…»: la sua frase è carnosa, importante. Scende il silenzio, rispettoso. «Nominiamo un presidente permanente del Plenum… io sono disponibile…».
Un boato di fischi lo sommerge.
Ragazzi si baciano indifferenti in mezzo a pensionati che scrivono le petizioni. Ci sono studentesse alte e dritte, la luce dalle finestre le prende con una violenza di incendio, le prende tra i capelli, le vive su dalla gola, i begli occhi si aprono come fiori: sono felici, una tenerezza sale loro dall’anima in quella furente ora ove le cose vibrano come note: eccoci siamo noi, i giovani, i rivoluzionari, tutti uniti in un blocco, amici anche se non ci conosciamo. Tutti d’accordo, tutti per la stessa causa, quel che si dice gli edificatori di un mondo nuovo, per una volta per la prima volta. Ed è per questo che ognuno di noi è tre volte più forte.