Marisa Fenoglio, La Stampa 16/2/2014, 16 febbraio 2014
CASA FENOGLIO QUELLO SPARO IN CUCINA
Ho visto Beppe avviarsi sulla via faticosa dello scrivere, seduta allo stesso tavolo ho assistito ai suoi pasti che, come dico in Casa Fenoglio (Sellerio 1995), erano per lui occasioni di lettura che noi ci guardavamo bene dal disturbare.
«L’ho visto tornare a casa alla sera, gravido di pensieri da mettere sulla carta, ritirarsi nell’unica camera un po’ enucleata dal resto dell’alloggio, da cui giungevano quei tre segni della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse e il battere dei tasti della macchina da scrivere. Scriveva per ore, ininterrottamente, e nel cuore della notte quelle boccate avide e appagate di fumatore impenitente, più silenziose della tosse ma scandite come il battere dei tasti della macchina da scrivere, mi davano intera la sensazione della sua concentrazione, ma anche della sua infinita lontananza da casa nostra».
Soprattutto ho assistito ai duelli tra lui e mia madre: i soldi e il fumo ne erano lo spunto, ma erano scontri violentissimi tra due persone che parlavano lingue diverse. Mio padre al loro annunciarsi chiudeva porte e finestre per via dei vicini, e si dileguava, per ritrovare la sua calma nel vicino negozio di tabaccaio. Io restavo, in tumulto, tra loro due. Nei primi tempi del suo impiego alla ditta Marengo (non fu una scelta sua, ma di mia madre, per metterlo al sicuro, seduto dietro una scrivania, con precisi orari di ufficio) il suo rientro a casa, alla sera, era da noi molto temuto.
Dopo aver incrociato uno sguardo di sfida con lei, ancora seduta alla cassa del negozio [la macelleria gestita dal marito, ndr] , si infilava nel portone, abbordava le scale e salendo gridava, gemeva, inveiva, in un misto di rabbia, di rancore, di sofferenza, altrimenti non esprimibili. Mi arrivavano fino nell’alloggio dell’ultimo piano, dove spesso io davo ripetizione di latino a una nipote dei Miroglio, ancora ad Alba dopo lo sfollamento da Torino in tempo di guerra, e di poco più giovane di me. Facevamo finta di non sentire. Ma dentro di me ero sconvolta, e sapevo che in quello stato dovevo poi scendere le scale, entrare in casa e fare come se niente fosse.
Né posso dimenticare quello sparo, partito da una delle armi che Beppe si era tenuto dal tempo dei partigiani (e ricomparse in questi ultimi mesi in casa della vedova), in un pomeriggio d’inverno, quando eravamo tutti in cucina e padre e madre si riposavano, al caldo, dopo una mattinata passata in negozio. Penso che neanche Beppe lo abbia voluto.
In piedi con le armi sul tavolo, a due, tre metri da noi, non aveva premuto il grilletto coscientemente, qualcosa gli era sfuggito nella cura certosina che regolarmente metteva nel ripulire, lubrificare le sue armi, nel tenerle in mano, scomporle, accarezzarle come in una liturgia. Ma a quel tempo l’atmosfera in casa nostra era tale da non dare adito a pensare bene. Il colpo rimbombò mostruoso nella nostra cucina, ma nessun grido di spavento, nessuna domanda, nessun fuggifuggi seguì allo sparo. E neppure una spiegazione da parte di Beppe.
La frase che in La paga del sabato Beppe fa dire da Ettore alla madre, «Lasciami vivere, sai», frase di vero allarme esistenziale, è la sintetica risposta letteraria a questa realtà, resa con implacabile sincerità. La madre di Ettore, nella Paga del sabato, è l’unica figura letteraria che porta interi i caratteri fortemente conflittuali della madre vera. Nelle altre figure femminili Beppe ha travasato la ribollente, caparbia carica materna, l’ha ripartita in ognuna di esse. Ma quasi sempre le ha amputate, «purificate» della parte conflittuale della madre vera, quasi esse dovessero rappresentare l’aspirazione di Beppe a una figura materna in realtà mai vissuta.
Ma si farebbe un torto grandissimo a nostra madre se si vedesse di lei soltanto questo aspetto di acerrima antagonista. La grande madre aveva molte valenze. Il dramma di esser messa di fronte all’inquietante risultato dei suoi sforzi, quel dramma mia madre lo ha vissuto in modo angoscioso, ma mai passivo.
Quel suo saper vedere così empaticamente dentro l’essenza stessa dell’essere scrittore e nel riconoscerne i pericoli, l’ho descritto in Casa Fenoglio: «Proprio quel salto di qualità la turbava. Le sembrava che la comparsa di uno scrittore in famiglia non rappresentasse un passo avanti ma un indebolimento, un segno di decadenza, un’incrinatura in un vaso già fragile e che altre fossero le professioni di chi ha vera vitalità, nerbo e robustezza nelle cose della vita. [...] Lo scrivere restò quindi per lei un’attività misteriosa, enigmatica, indecifrabile, ma così compenetrata con l’essenza del figlio da diventare essa stessa inattaccabile. Attività che gli sottraeva ore di lavoro, gli rubava il sonno della notte, gli minava la salute, ma con cui proprio in forza di questo dominio bisognava venire a patti. Allo scrivere si avvicinò sempre con cautela, con sospettoso riguardo, alla fine con rispetto, senza mai - mio fratello vivo - sentirsene lusingata o fiera. Si rifiutò sempre di leggere qualcosa di lui: «Io so tutto di quello che tu scrivi», gli diceva molto emozionata, «non ho bisogno di leggerti. Io ti conosco!».
Arrivò in casa una macchina da scrivere che da quel momento troneggiò sul tavolo della sala da pranzo e mai, aggiungo, ospite fu cosí importante da farla sloggiare. Quindi si era deciso di procurare a Beppe gli strumenti del mestiere.
È un particolare di cui sono venuta a conoscenza soltanto a stesura già ultimata di Casa Fenoglio e raccontatomi da mia zia Elvira nel 1999.
«Nell’estate del 1946, di pomeriggio, sotto un sole cocente, incontro in piazza del Duomo tua madre che la sta attraversando. Ci fermiamo. “Dove vai?”, le chiedo. “Vado da Rotellini in via Maestra ad affittare una macchina da scrivere”. “Per chi?”. “Per Beppe”. “Per Beppe? Perché?”. “Vuole scrivere”. “Ma è diventato matto?”. “No, vuole scrivere. Scrivere libri”. “Allora siete diventati tutti matti!”».
Dialogo - troncato bruscamente in massima incomprensione reciproca - che dimostra quanto sia difficile, per un mutante intellettuale come Beppe, inserirsi di brutto in un tessuto sociale di normalità di mestieri e di scopi di vita. E il dilemma di mia madre che di questa normalità condivideva le aspirazioni, ma che, davanti alla vocazione del figlio, alla fine capitola.