Mattia Feltri, La Stampa 16/2/2014, 16 febbraio 2014
LE TRE STRADE DI ANGELINO IL LEADER CHE NON TRASMETTE NOVIT
Una mattina Angelino Alfano si sveglierà e si accorgerà di essere venuto a noia. A soli quarantadue anni. Matteo Renzi, nella sua spietatezza robotica, e tutti i consiglieri in pieno orgasmo catartico, hanno individuato nel segretario del Nuovo centrodestra l’ultimo bastione del fortilizio assediato. Da lì hanno già trascinato a terra Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Walter Veltroni, le relative torme, e tutti gli altri capetti di un ventennio; la pulizia etnica non si è mai più fermata. Si sono presi anche Enrico Letta del quale Renzi aveva detto di non sentirsi né affine né coetaneo, senza scordare di coinvolgere Angelino: «Sono totalmente diverso da loro, per tanti motivi. Io ho ricevuto un mandato popolare, Enrico è stato portato al governo anni fa da D’Alema, che io ho combattuto e combatto in modo trasparente; e Alfano al governo ce l’ha messo Silvio Berlusconi quando io non ero nemmeno sindaco di Firenze». Sono parole di un mese e mezzo fa.
È la ferocia renziana, ma non soltanto. Angelino ha avuto parti rilevanti negli ultimi quattro governi. Nel governo Berlusconi varato l’8 maggio 2008 è ministro della Giustizia, carica che abbandona nell’estate 2011 - pochi mesi prima che a Palazzo Chigi arrivasse Mario Monti - per diventare segretario del Pdl, nominato dal capo e acclamato dalla platea. Da segretario è l’automatico azionista di maggioranza dell’esecutivo dei tecnici e in qualità di emissario di fiducia di Berlusconi è vicepremier e titolare dell’Interno in quello di Letta. Ora che tocca a Renzi, ha ragioni meno ideali, ma numeriche e quindi sostanziose, per accomodarsi di nuovo in Consiglio dei ministri. Una carriera costantemente vissuta dalla parte giusta della cronaca, ed è un risultato comprensibile in un uomo che ha saputo definirsi - ai tempi della guerra civile fra falchi e colombe - «diversamente berlusconiano». Un risultato ancora più comprensibile se si pensa che Alfano, classe 1970 (ottobre), è entrato alla Camera nel 2001. Tredici anni da parlamentare, e per di più undici trascorsi in maggioranza, non sarebbero stati niente nella Prima repubblica e poco nella Seconda ma adesso che la velocità e la verginità istituzionale sono i requisiti irrinunciabili della politica, Alfano si è di colpo trasformato in ferrovecchio.
Da un punto di vista anagrafico è una vera ingiustizia. E poi non è detto che le cose vadano a finire così. Magari Alfano va al governo in pompa magna e si rivela un leader aureo. Magari Renzi non ce la fa a raderlo al suolo prima e nemmeno durante il regno che si apre. E però è vero che Alfano è proprietario di una personalità incapace di comunicare freschezza. La sua carriera ondeggia fra nomine e cooptazioni. Da Berlusconi a Letta, passando per il caso minore di Gianfranco Miccichè, gli è attribuita una quantità di congiure da saziare un’intera corrente democristiana per due o tre lustri. Forse a causa degli studi classici, attinge a un lessico un po’ raffermo, fra il burocratico, lo scontato e il contadinesco: per illustrare la vicenda di Letta, ha scelto l’aggettivo «kafkiana», usurato già ai tempi di Kafka; a Renzi ha chiesto «spazio per far valere le nostre istanze»; al Pd ha garantito che «non saremo noi a togliere le castagne dal fuoco». Ora, e comprensibilmente, ha preteso dal quasi-premier due o tre giorni di tempo di modo che il programma sia steso con qualche cura e qualche attenzione agli elettori di destra. Spiega, da buon tattico dotato di una sostanziosa dose di cinismo, che gli si deve dare soddisfazione, altrimenti ci si accomoda al voto: in fondo (non lo dice ma lo sa) il sistema proporzionale uscito dalla Consulta è il più adeguato a un partito il cui peso è affidato ai sondaggi, non particolarmente eccitanti, non avendo mai partecipato, come il suo leader, a una competizione elettorale. E però, la si giri come pare, o Angelino Alfano spunta un ministero confacente alle sue mire, e gli tocca lavorare soprattutto alla gloria di Renzi intanto che si prende il titolo di uomo di tutte le stagioni, oppure si fa da parte, come vorrebbe il sindaco, smanioso di cospargere il sale sul passato, e allora diventa il rottamato più giovane di ogni tempo. Oppure, davvero, fa saltare tutto.