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 2014  febbraio 16 Domenica calendario

L’OBBLIGO DI MIRARE IN ALTO


Il giudizio della storia sui condottieri, siano essi generali, leader politici o militanti rivoluzionari, non dipende quasi mai dal modo, più o meno sbrigativo, in cui conquistano il potere, ma dall’uso che ne fanno una volta saliti al comando. Così sarà per Matteo Renzi, che giusto in queste ore sta assumendo la guida del Paese. Se fallirà, tutti lo rimprovereranno: sei stato spregiudicato, hai tradito l’amico Letta, ti sei autoproclamato premier, sei venuto meno alla promessa di non scalare il potere senza una vittoria elettorale alle spalle. Se avrà successo, anche gli indignati di oggi finiranno per perdonarlo.
Istintivamente, mi sento più fra i perplessi che fra gli entusiasti. E tuttavia c’è una ragione che mi induce a sorvolare sulla evidente scorrettezza, o se preferite irritualità, del comportamento di Renzi. Questa ragione è puramente negativa, ma ha una sua forza. La riassumerei così: nessun rimpianto per quel che ci lasciamo alle spalle.
Può darsi che Renzi alla fine non combini nulla di buono, può darsi che provi a cambiare l’Italia e non ci riesca.

Può darsi – speriamo di no – che commetta degli errori. Però basta ripercorrere con un po’ di lucidità e di disincanto l’esperienza degli ultimi due anni per rendersi conto che è dalla primavera del 2012 che, nonostante la buona volontà di Monti e di Letta, l’Italia non ha un governo all’altezza dei suoi problemi. L’ultimo tentativo di governare il Paese (non entro qui nel merito se bene o male) risale ai primi 4-5 mesi del governo Monti, più o meno dal novembre del 2011 ad aprile 2012. In quel periodo venne varata la riforma delle pensioni (con il grave effetto collaterale dei cosiddetti esodati) e, dopo alti e bassi, venne fermata in qualche modo la corsa dello spread Italia-Germania, che nel marzo del 2012 tocca il minimo dell’anno. Dopo di allora è stata tutta una navigazione a vista, con alcune cose apprezzabili sia da parte di Monti sia da parte di Letta, ma senza una chiara direzione di marcia e soprattutto senza alcuna vera intenzione di mettere mano ai problemi più difficili. Dove per problemi più difficili non intendo le pur importantissime riforme delle regole (legge elettorale, bicameralismo, titolo V, regolamenti parlamentari) bensì i grandi nodi dell’ultimo quarto di secolo: mercato del lavoro, pressione fiscale sui produttori, ipertrofia burocratica e normativa, spreco di risorse pubbliche, parassitismo di intere porzioni di territorio.
E infatti, dalla primavera del 2012 ad oggi, ossia da quasi due anni, la condizione economico-sociale del Paese è enormemente peggiorata. Certo, ci raccontano che la ripresa è alle porte (la «vedeva» già Monti due anni fa), che lo spread con la Germania è migliorato, che la fiducia sta tornando. Ma è un racconto altamente fuorviante. Nei primi drammatici anni della crisi, fra il dicembre del 2008 e il dicembre 2011, l’Italia perdeva 76 mila posti di lavoro all’anno. Nel solo 2012 le perdite annue erano salite a 248 mila posti. E nel 2013, dopo la cura Monti e sotto lo sguardo pacato di Letta, hanno raggiunto la stratosferica cifra di 433 mila posti di lavoro distrutti in un solo anno. E mentre i nostri governanti si affannavano a convincere l’Europa che stavano facendo i compiti a casa, il giudizio dei mercati su di noi non ha fatto che peggiorare. Per rendersene conto basta usare il termine di paragone appropriato, che non è la Germania, ma sono i Paesi sottoposti a sorveglianza, ossia gli altri quattro PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). Nella primavera del 2012 (alla fine della «luna di miele» del governo Monti) il vantaggio dei nostri titoli di Stato nei confronti di quelli dei PIGS era di circa 6 punti, oggi è ridotto a circa 1 punto. E il peggioramento, si noti bene, riguarda ciascuno dei quattro Paesi che stanno tentando di autoriformarsi: nel giro di appena 2 anni abbiamo perso circa 15 punti di vantaggio rispetto alla Grecia, 5 punti rispetto al Portogallo, 2 punti rispetto all’Irlanda, mezzo punto rispetto alla Spagna. Lo stesso discorso vale per l’andamento del Pil: anche noi, come tutti i Paesi europei, stiamo faticosamente uscendo dalla recessione (di qui la cautissima benevolenza di Moody’s sull’Italia), ma sfortunatamente siamo fra i Paesi che in questi 7 anni hanno perso più posizioni in termini di reddito, di ricchezza, di posti di lavoro.
Insomma, a mio parere il rimprovero di aver fatto poco, che così spesso viene mosso a Letta e a Monti (o meglio al secondo Monti, quello del dopo-emergenza), è fin troppo generoso: con i governi di unità nazionale, o di larghe intese, il Paese non è stato semplicemente fermo, bensì è andato indietro sui due terreni fondamentali, quello dell’occupazione e quello delle prospettive di crescita. Si tratta ora di provare, finalmente, ad andare avanti, ed è precisamente su questo che si giocherà la partita di Renzi.
Ma avanti in che direzione?
Qui intravedo due possibilità, o meglio due scenari. Nel primo, chiamiamolo scenario A, Renzi cerca di usare il consenso di cui gode per varare le riforme dolorose di cui il Paese avrebbe bisogno. Conseguenze: centralità della politica economico-sociale, disco verde a Cottarelli sulla spending review, meno tasse sui produttori, drastica riduzione degli adempimenti delle imprese, riforma radicale del mercato del lavoro (meno sussidi e più politiche attive), molte personalità esperte e indipendenti nei ministeri che contano.
Nel secondo, chiamiamolo scenario B, Renzi cerca soprattutto di massimizzare il suo consenso nel Paese e il suo controllo sul governo. Conseguenze: molta attenzione alla partita delle regole, varo di alcune misure anti-casta sacrosante, ma poco incisive sul piano dei conti pubblici, negoziato con l’Europa per ottenere flessibilità sui conti pubblici, cautela sul mercato del lavoro, un paio di sindacalisti nel governo, giovani ministre e ministri di sicura fede renziana nei dicasteri chiave.
Inutile dire quale dei due scenari sia più utile all’Italia. Quanto a Renzi, non so se avrà il coraggio di scegliere lo scenario giusto, ma ho l’impressione che mirare in alto, a un vero cambiamento del Paese, sia l’unica strada per farsi perdonare lo strappo che l’ha portato al potere.