Davide Milosa, Il Fatto Quotidiano 16/2/2014, 16 febbraio 2014
IL “LUPO ” DEL SESSO CHE VIOLENTAVA LE OPERAIE
Il racconto, terribile, inizia così: “Mi ha toccata, lui se n’è andato, camminavo dietro a lui e gli ho detto: senta signore, lei non mi deve toccare e lui mi aveva risposto: ma va, guarda, qua è così”. Il senso è chiaro: “Devi soltanto darmela, qua in Italia è così, nessuno ti darà un posto di lavoro, nessuno ti farà quello che io vado a fare per te, se no vai via”.
Le parole sono quelle di Rebeca, una donna sudamericana che assieme alle due sorelle ha lavorato nella ditta di materiale plastico di Giampietro Manfredini, nato a Melzo nel 1938, condannato in primo grado a dieci anni di carcere per violenza sessuale e maltrattamenti.
NEL 2011, REBECA si licenzia e denuncia. La polizia inizia a indagare. La sentenza arriva il 29 gennaio scorso, dopo che il 20 marzo 2013 l’imprenditore viene rinviato a giudizio. Ieri il deposito delle 55 pagine di motivazioni firmate da Fabio Roia presidente della Nona sezione penale del tribunale di Milano. E dove Manfredini viene descritto come un “lupo” che ha “costruito” un “clima di macelleria ambientale e relazionale”, tenendo, per anni, un comportamento ispirato “da una concezione quasi schiavista del ruolo della lavoratrice donna, sempre potenzialmente oggetto di attenzioni di tipo sessuale”. Non solo. Secondo la Corte, Manfredini era riuscito a creare “un rapporto di imposta sudditanza personale della vittima nella costante minaccia di licenziamento e di interrompere il processo di regolarizzazione personale e familiare che le donne avevano intrapreso per radicarsi con i loro cari in Italia”. La storia inizia nel 2001 quando proprio Rebeca, la prima delle tre sorelle, arriva a Milano e inizia a lavorare per Manfredini. Assunta a tempo determinato nella ditta composta da un solo capannone nell’hinterland milanese e dove erano impiegate al massimo sette persone. La seguiranno le altre due sorelle. L’ultima arriva a Milano nel 2003. Fin da subito iniziano le minacce e le pressioni psicologiche. L’argomento di Manfredini è sempre lo stesso. “Guarda, tu me la devi dare, tu devi venire con me a letto se vuoi che ti sistemi, che faccia venire i tuoi figli, se no dimenticati di tutte queste cose che ti ho detto (...) tu domani devi venire e me la devi dare assolutamente”. Parole riferite da una delle tre sorelle e messe a verbale durante le udienze del processo iniziato il 12 giugno 2013. La donna prosegue nel descrivere la violenza: “Ho fatto quello che ho dovuto fare sopra una scrivania che era il posto dove lui se ne approfittava, voleva farlo ogni giorno”. Una situazione, ragiona il giudice, “decisamente drammatica” e dove, soprattutto la prima delle tre sorelle, “è stata costretta a una vera e propria sottomissione sessuale violenta da parte dell’imputato”.
ECCO DI NUOVO il racconto della donna: “Mi fischiava, come quando si chiama un cane”. E se lei non rispondeva, Manfredini si arrabbiava: “Mi diceva: chi cazzo ti credi di essere? Mi spintonava. Non vedi che io sono un uomo importante, non sai quante ragazze vogliono fare sesso con me!”. Il risultato di quello che il giudice definisce “un mobbing padronale” è stato trascinare le donne “sull’orlo del suicidio a causa di una storia devastante che le ha tolto completamente la capacità di godere della vita”. Dopo il 2003, poi, una delle tre sorelle rimane incinta. Martha, racconterà Rebeca, faceva la magazziniera e dunque il lavoro era molto pesante. Quando Manfredini lo viene a sapere va su tutte le furie. Dirà l’imprenditore a un’altra sorella: “Quella lì deve andare via di qua, quella puttana. Quello che ha dentro (...) quello che ha la tua sorella ha una scimmia”. Il marito della donna, spiega sempre Rebeca, “è un signore di colore molto scuro di pelle”. Questa la vicenda alla quale si aggiunge l’atteggiamento tenuto in aula da Manfredini e che “non ha dimostrato alcun segnale di presa di coscienza del disvalore di un atteggiamento quantomeno di natura padronale nelle relazioni con le sue dipendenti limitandosi”. Da qui la scelta della Corte di condannarlo a versare una provvisionale alle tre donne (350 mila euro, 150 mila euro e 80 mila euro), definendolo, anche in base ai racconti dei testimoni convocati in aula, “una persona certamente di impronta e mentalità fortemente maschilista e sessista, assimilabile ad un regime di tipo padronale (...) e qualificato da forme di devianza e perversione sessuale”.