Antonio Gnoli, La Repubblica 16/2/2014, 16 febbraio 2014
VALENTINO ZEICHEN
Nell’universo di Valentino Zeichen non c’è posto per la grazia. Il poeta non è una creatura speciale, ispirata, palpitante. È una persona che prevalentemente vive immersa nel conflitto. Il soldato Zeichen – così viene di presentarlo – imbraccia robusti Kalashnikov e vola su vecchi Spitfire: strumenti o meglio immagini mentali con cui combatte la sua lotta per la sopravvivenza. Mi riceve dritto sulla soglia della sua ormai mitica “baracca”, ultimo avamposto di un mondo solo in apparenza pittoresco. In realtà duro e povero: una perla di squallore che brilla di opaca grandezza, nel cuore di Roma. Ho letto con ammirazione la raccolta completa delle sue poesie (in uscita domani da Mondadori). Non vi ho trovato disagio, disperazione, infelicità, invocazione. Ma la disciplina del naufrago che conta i giorni che lo separano dalla costa: «Non saprà mai quando avvisterà terra, ma è per quella, in funzione di quella che il naufrago si organizza», commenta Zeichen.
Cosa ama della disciplina?
«È una domanda che mi inquieta».
Perché?
«La disciplina fa pensare alla difesa dell’ordine costituito. Io difendo solo me stesso».
Da chi?
«Dai fantasmi, dai topi, dagli scarafaggi, dai vicini. La disciplina è un esercizio tutt’altro che astratto. Se vuoi sopravvivere, come nel mio caso, bisogna sviluppare notevoli capacità organizzative».
Notevoli quanto?
«Arte dell’adattamento. E del bricolage domestico. C’è stato un tempo in cui stiravo. Le camicie erano il mio forte. Cadute le ambizioni mondane, non stiro neanche più. Roma mi accetti come sono. Del resto ci vivo, tranquillamente, da più di mezzo secolo».
Dove è nato?
«A Fiume. Lì ancora si agitano i ricordi improbabili dell’impresa dannunziana. Ebbi un padre legionario. E una madre sovrastata da un cattivo destino. I miei si separarono che avevo tre anni. Quando ne avevo sette, Evelina morì di tisi. La vidi l’ultima volta in una colonia marina. Era già autunno. Ci prolungavano il soggiorno. Arrivò sorridente con i suoi bellissimi denti e un pallore spettrale. Poche parole. Convenzionali. Poi l’altoparlante avvertì che le visite stavano per finire. Se ne andò promettendo di tornare. Sapevo che fingeva».
Che anno era?
«Il 1945. La guerra era finita. Ne cominciò una peggiore. Il trasferimento nei campi profughi. Vita da sfollati in una zona non lontana da Trieste. Facevamo la fila per il pane, per le lenzuola, per tutto. Poi finimmo a Roma. Come giardiniere del comune fornirono a mio padre un alloggio nelle stalle di Villa Borghese. Ho passato lì la mia adolescenza. Spesso scappavo di casa. Alla fine papà e la matrigna decisero, in accordo con il commissario, di spedirmi in un riformatorio».
Dove?
«In una casa di correzione a Firenze. Quasi tre anni. Studiai da perito chimico. La sveglia alle sei e trenta. La scuola a Rifredi. Mi salvai grazie alla fornita biblioteca del “collegio”. Lessi di tutto. Voracemente. Salgari, Tolstoj, Cechov, Balzac. Se sgarravi ti punivano. Ho imparato, in un ambiente di ragazzi difficili, a sopravvivere».
Come?
«Non pestando i piedi. Vestivamo da galeotti: con la divisa a righe. I capelli tagliati quasi a zero. La domenica, a messa, i fedeli ci guardavano come fossimo dei criminali».
E i suoi non vennero a trovarla?
«Mai. Papà aveva altre priorità: i tuffi, il ballo e le scarpe. Aveva una venerazione per le scarpe, soprattutto bicolori. Un sentimento, forse l’unico, che mi ha trasmesso. Quanto al ballo ci portava, quasi tutte le domeniche pomeriggio, alla sala Pichetti. Era il solo che ballava ».
Voi guardavate?
«Sì, la matrigna che non faceva che lamentarsi. Mi trascura, diceva. Non si preoccupa se qualcuno mi guarda il culo, aggiungeva. Che uomo è? Concludeva inferocita».
Che uomo era?
«Dovrei detestarlo. Ma fu un uomo che alla fine dei suoi giorni capì il senso della vita. Cioè del suo esistere per niente. Si accorse che per tutto il tempo aveva pensato solo alla distruzione del suo mondo».
Veniva da lontano.
«Ma non andò da nessuna parte. Si accompagnò solo con quella ridicola tomboletta della matrigna».
Non ne ha un gran ricordo.
«Si sbaglia, devo a lei se sono diventato un poeta. Devo alla sua meticolosa crudeltà il fiorire delle mie parole. Avrei fatto qualunque cosa per esaudirne il desiderio. Certe tarde mattine mi obbligava a metterle lo smalto sulle unghie dei piedi. Poi, con uno specchietto, controllava il risultato. Era affetta da una demenza teatrale che mi ipnotizzava. Fu una musa ostile e involontaria».
Cosa le ha dato?
«Quel tanto di follia profonda senza la quale non si fa poesia».
Finiscono gli anni del riformatorio e torna a Roma.
«Mio padre mi dice: o ti trovi un lavoro o vai via di casa. Mi occupai prima come aiuto tipografo e poi come fattorino. Con una bicicletta distribuivo nelle parrocchie i vangeli che la tipografia aveva stampato. Credo di non essere mai stato così vicino al sacro come in quel periodo. Poi mi iscrissi a una scuola di recitazione. Avevo 18 anni ».
Voleva fare l’attore?
«Frequentai per due anni l’Accademia di Sergei Sharov, un signore scampato ai bolscevichi che applicava il metodo Stanislavskij. Forte di tutto quello che avevo letto, cominciai ad amare il teatro. È difficile avere una profonda cognizione di ciò che accade senza buone letture alle spalle».
E che percezione ebbe?
«Era la metà degli anni Cinquanta. Roma stava cambiando pelle. Le greggi di pecore erano soppiantate dai primi gruppi di turisti americani. Stava per esplodere la “Dolce vita”».
Con che spirito l’affrontava?
«Con diffidenza. Frequentavo Villa Strohl Fern dove c’erano i miei amici artisti. Molto meno via Veneto e i suoi caffè frutto di un’acida cordialità letteraria».
Restavano pur sempre le periferie.
«Erano un orrore che neanche il comandante Kurtz avrebbe potuto tollerare. Non ho mai capito Pasolini e la sua carica di retorica per le borgate. Non ho mai condiviso quel suo tentare di rendere compartecipi gli altri alla tragedia della sparizione delle lucciole. Sui vantaggi della luce elettrica potrei scrivere un trattato».
Vive in un ambiente che sarebbe piaciuto a Pasolini.
«Non credo che ci avrebbe mai abitato. Occupò, forse a sua insaputa, dimore più signorili. I poeti e gli scrittori spesso si ostinano a immaginare un altrove comodo ed esotico».
Come definirebbe la sua poesia?
«La mia poesia è senza speranza. Non parlo di mondi onirici. Nella mia poesia entra la comicità, l’ironia, la precisione. Ci sento lo zampino della matrigna. E quindi la diffidenza verso il sentimento. O meglio: verso la menzogna del sentimento. Esiste una purezza della poesia alla quale sono fedele».
Quale?
«L’esclusione del cuore. Non mento mai. Il meccanismo della scrittura può ingannare il lettore, ma non la sostanza che abita la poesia».
È duro scrivere poesie?
«Cosa vuol dire duro? Si può scrivere un verso meraviglioso in trenta secondi. E in perfetta surplace. Sono un poeta d’occasione. Non di quei miseri solitari e ambiziosetti che soffrono e palpitano. La poesia mi ha aiutato a procurarmi pranzi e cene».
Alberto Moravia apprezzò i suoi versi.
«Ci vedeva il riverbero del suo realismo. Più esattamente definì la mia poesia un’eco di Marziale nella Roma contemporanea».
In somma, è un poeta epigrammatico.
«Preferisco definirmi occasionale».
Perché?
«Sono uno svogliato. La mia poesia maschera la mia pigrizia. Non ho volontà di andare a fondo. Non l’ho mai avuta».
Teme il suo inconscio?
«Al contrario! La mia vita è solo inconscio. Non ho niente da nascondere. E poi...».
E poi?
«Detesto la presunzione dell’intelligenza che molti hanno a loro insaputa. Un buon inconscio spazza via tutto. Cancella la presunzione. Se sei un imbecille viene fuori in maniera evidente. Molto più che se hai talento».
E lei si riconosce del talento?
«Sono gli altri che devono riconoscerlo. Un poeta rischia solo la propria disfatta. Per questo gli occorre disciplina. E strategia. Penso alla mia poesia come a una variante della geopolitica».
Conquista dei mondi?
«Conoscenza dei mondi. Pensare il mondo è dare del tu al tempo. Una confidenza che ritrovo solo nelle grandi opere d’arte. La mia poesia si è spesso occupata d’arte».
Il fascino di sottomettersi al capolavoro?
«Una forma di feticismo. Che ho sviluppato con la lunga frequentazione dei musei. Vi andavo perché non avevo nulla da fare o per rimorchiare. Quando svanivano le ragazze, restava il giudizio estetico ».
Ha avuto parecchie donne?
«Non ho mai fatto la corte e sono quasi sempre stato conquistato. La mia vita sentimentale è stata un continuo insieme di fughe. Con qualche storia più lunga e importante. Ma alla fine, come direbbe Fitzgerald, sono decisivi gli estratti conto. Il mio è quasi sempre stato in rosso. Cosa potevo offrire?».
Meglio soli?
«Si, con qualche saltuaria compagnia».
So che ha una figlia.
«Nata fuori dal matrimonio. Per caso. E penso non ci sia modo migliore per nascere. Oggi ha 40 anni e fa la biologa marina in Inghilterra ».
Che rapporti intrattiene?
«Di affetto e cordialità. Mi rendo conto di essere stato un padre solo per l’anagrafe. Ho applicato le regole della vecchia scuola di famiglia ».
E se ne pente?
«No, la cosa che in fondo ho amato di più è stata la libertà. Nel suo nome avrei fatto qualunque cosa. Ho combattuto solo per essa. So che ci sono regole da rispettare. Ma la testa deve essere libera. Anche al prezzo di restare poveri».
Le pesa la povertà?
«Relativamente. Delle volte se non ho da mangiare digiuno. Mi convinco che fa parte della mia dieta. Sono un esempio di quella decrescita su cui molti oggi blaterano. Quante inutili parole per dire: consumate meno, camperete più a lungo».
Come vede la vecchiaia?
«Invecchiare è orrendo. Perdere la propria autonomia è orrendo. Siamo sempre lì: una questione di libertà».
Cosa l’ossessiona della vecchiaia?
«Me lo sono chiesto spesso. Non ho risposte leggiadre».
La dia greve.
«Sono per la libertà di non fare un cazzo. Questa è la verità. Non ho voglia di impegnarmi in niente. Mi sono inventato la poesia d’occasione per lavorare poco. La mia conclusione è che la vita o la interpreti con un pizzico di fantasia o ti adatti al suo spietato grigiore ».
Da che parte si mette?
«Dello spietato grigiore, ovviamente. Non puoi evadere dalla realtà».
La letteratura lo ha fatto spesso.
«Quella occidentale è stata grande quando non si è imposta con degli atti arbitrari della fantasia. Fino a quando Kafka interpreta lo “spietato grigiore” è superbo, quando trasforma un uomo in uno scarafaggio commette un arbitrio».
Non è ammissibile?
«Non è plausibile. Non dico che sia sempre così. Nel mondo islamico delle Mille e una notte, dove tutto è possibile, anche un tappeto può volare. La nostra tradizione, invece, è basata sul diritto dei fatti. Se no il mondo si sfalda, si distrugge».
Ne difende la compattezza?
«Difendo le ingiunzioni sulle procedure mentali. La verità è una faccenda seria. Noi abbiamo una scuola, una tradizione. Forse manchiamo di futuro».
Come vede il suo?
«Per dirla con un mio verso, sono come quei vecchi ragazzi che videro nel retrovisore molti coetanei sparire nell’avvenire. Più si invecchia più il tempo accelera e ti inghiotte. C’è una poesia di Kenneth Patchen: solo da qui a qualche anno l’erba crescerà sulle nostre tombe. Siamo a cavallo del divenire. Poi, a un tratto, verremo disarcionati ».
Come si immagina il dopo?
«L’aldilà lo penso come un paradiso per ricchi: il nulla più frivolo che si possa immaginare. Uno, cento, mille Billionaire. Lusso per pochi eletti. Insomma, la solita fregatura».
È sempre così caustico?
«Il sentimentalismo mi offende. La vera sensibilità è irrisa e derisa. La cosa più terrificante è che indossando delle belle corazze continuiamo a parlare di disponibilità, di educazione, di solidarietà senza capire che la sensibilità è morta. Pochi privilegiati possono permettersi questo oscuro sentimento così poco democratico».