Arnoldo D’Amico, La Repubblica 16/2/2014, 16 febbraio 2014
PIER PAOLO PANDOLFI
BOSTON Prima partita di campionato. Lo stadio del baseball è gremito. Sul diamante i Boston Red Sox, la squadra della città. I giocatori, non proprio atletici come tipico del baseball, caracollano verso le postazioni. Manca il lanciatore, la pedana a centrocampo rimane vuota. Un uomo in completo nero raggiunge il monticello di terra, estrae la palla dalla tasca, lancia, ed esce. Ovazione dei quarantamila spettatori. Cinque anni dopo, settembre scorso, il volto da romano del lanciatore in nero — occhi distanti, capelli ricci, mascella pronunciata, naso importante — sorride a tutta pagina dal Boston Globe, quotidiano americano tra i più prestigiosi. Così Harvard, la prima università del mondo, ha celebrato prima il reclutamento e poi la nomina a direttore di Pier Paolo Pandolfi. Nella pagina pagata cinquantamila dollari, poche parole sotto la foto: «Mio padre e mia madre se ne sono andati troppo giovani per un tumore. Curare il cancro, per me, è una questione personale».
Pier Paolo Pandolfi, nato a Roma cinquant’anni fa, oggi ha una cattedra a vita ad Harvard dove dirige il Cancer center. Vi lavorano cinquemila persone. Oltre a infermieri, tecnici e medici di varie specialità, ci sono cinquanta oncologi a gestire 650 posti letto e 49mila visite ambulatoriali, 30mila terapie farmacologiche, 17.500 radioterapie e 1500 asportazioni di tumore ogni anno. Le cause del cancro le insegue coordinando 120 scienziati, leader di altrettanti gruppi di ricerca, che assorbono i cento milioni di dollari di fondi “vinti” ogni anno con dure selezioni. È il triplo dell’ultimo stanziamento italiano ai Prin, i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale in tutte le aree scientifiche.
Harvard telefonò a Pandolfi nel 2006, in agosto, mentre era a Manhattan a dirigere la ricerca genetica del Memorial Sloan Kettering Cancer center, uno dei templi mondiali della cura dei tumori, dove hanno lavorato e lavorano molti premi Nobel. E la precedente offerta da New York era invece arrivata alcuni anni prima mentre Pandolfi si trovava a Londra, fresco di studi e scoperte fatte in Italia, ancora studente di dottorato. Il cambiamento è la costante della vita di PP, come lo chiamano gli amici.
A ventidue anni, dopo aver divorato classici della letteratura dal Cinquecento in poi, frequenta Filosofia a Roma. «Lezioni ed esami indimenticabili con Tullio De Mauro, Lucio Colletti, Gennaro Sasso — racconta Pandolfi oggi, nel piccolo ufficio del grattacielo cristallo e acciaio, con un intero piano popolato da centotrentamila topi e un’entrata da luxury hotel — che mi hanno fatto incontrare Kant, Wittgenstein, Hegel, Marx e altri giganti della filosofia che hanno formato il mio modo di pensare». Nel frattempo studia pianoforte, chitarra e composizione, gira l’Europa zaino in spalla per sentire Mahler e Brahms diretti da Von Karajan, la musica contemporanea, Sting, Pink Floyd e Prince. E va a vela così bene che la Federazione italiana gli fornisce una barca per fare le regate. Ma il cancro si porta via la madre, poi il padre. E filosofia, musica e vela passano in secondo piano. La musica riappare sempre, anche quando lavora. La barca a vela è la protagonista delle vacanze estive in Italia, Grecia e Turchia, di quelle invernali ai Caraibi, con moglie, due figlie adolescenti e pochi amici stretti. E la formazione filosofica riemerge quando parla del cancro.
«Non è un mostro alieno, è vita fuori controllo dentro vita normale — spiega Pandolfi mentre scendiamo nei sotterranei del grattacielo — Fare la guerra al cancro è impossibile, nella maggior parte dei casi non si riesce a distruggerlo senza uccidere anche chi lo ha. Invece si può rimettere in riga quella vita senza regole. Ma per fare ciò non deve avere più segreti. Dobbiamo svelare tutti i passaggi che portano le cellule a moltiplicarsi senza sosta. E a rompere gli “ormeggi”, invadendo il corpo. Scoperto tutto questo possiamo “aggiustare” il cancro. Gli strumenti ci sono, ci serve solo sapere dove usarli».
Così PP ha reso una forma di leucemia (promielocita acuta) la prima e unica neoplasia guaribile al cento per cento solo con i farmaci. «Il merito è loro » racconta mostrando i topolini nella sala d’aspetto del centro diagnostico del mouse-hospital che ha inventato. Dall’altra parte del vetro Tac, Risonanza magnetica, ecografo, tutto è mini, progettato e costruito a misura di topo. I topolini in attesa degli esami hanno geni umani, prelevati nei piani superiori ai malati, che sono, o potrebbero essere, la causa del loro tumore. Nei topi il male è velocissimo, viaggia in proporzione alla sua vita media di due anni. In pochi mesi diventa grave e in poche settimane svela se e quanto un farmaco agisce. Nell’uomo invece passano almeno cinque anni prima che appaiano i sintomi e dieci, se va bene, per valutare un nuovo trattamento.
Velocissima invece la messa a punto della cura per la leucemia promielocitica acuta. Il primo gene responsabile — allora sembrava l’unico — si scopre nel ’99 a Perugia, nel laboratorio di Pier Giuseppe Pellicci dove Pandolfi lavora da studente. In base alle funzioni del gene individuate nei topi, si selezionano alcuni farmaci già in uso per altre patologie che potrebbero anche “aggiustare” il gene umano malato. Date al topo, ecco quelle che cancellano il cancro negli animali e poi nei pazienti. Ma nel quaranta per cento dei malati, dopo un po’, ritorna. Analizzando i nuovi tumori, si sospettano alcuni geni. L’impianto nei topi svela in pochi mesi quello tumorale e poi il farmaco già in commercio chelo“aggiusta”.Mainqualchemalato la leucemia riappare ancora. Di nuovo scendono in campo i topi e si arriva a cocktail di farmaci a misura di ogni malato. Il tutto a soli sei anni dalla scoperta di Perugia. E quella staffetta topo-uomo è diventata questo palazzo di cristallo e acciaio, e una strategia di ricerca che si sta diffondendo nel mondo.
«Ma la sfida sta diventando molto più complessa», aggiunge PP mentre ci “scafandriamo” per salire all’ultimo piano, degenza e camere operatorie per topi. «Sono loro i miei pazienti, mai avuto in cura esseri umani». Ora si scopre che non basta “aggiustare” i geni colpiti da mutazioni, quelli “vecchi” con le istruzioni per fare proteine che sino a dieci anni fa si pensava fossero centomila e occupassero tutto il genoma. Oggi si sa che sono circa ventiduemila nell’uomo (pochi meno nel topo) e occupano appena il tre per cento della lunga molecola di Dna umano. E tutto il resto che ci sta a fare? «Qualcosa di molto importante — risponde Pandolfi — perché ce lo portiamo di generazione in generazione, senza buttarlo via come impongono le leggi dell’evoluzione con ciò che diventa inutile. Anzi, questo novantasette per cento di Dna “oscuro” è frutto proprio dell’evoluzione perché cresce dai batteri all’uomo, dove raggiunge la lunghezza massima. Dentro ci stiamo trovando raffinatissimi sistemi di regolazione dei “vecchi” geni che, l’abbiamo dimostrato lo scorso anno, possono scombinare proprio quelli che controllano la moltiplicazione della cellula. Sono migliaia di sequenze genetiche che usano un linguaggio sconosciuto. Diverse per ogni malato. Ma una volta individuate le loro sequenze, la cura è pronta: coi sintetizzatori genetici possiamo fare in pochi minuti le sequenze anti-senso che li inattivano».
Neanche un mese fa su Cell, la “bibbia” della cellula, la scoperta che chiude il cerchio «almeno per ora»: anche il terzo degli “ingranaggi” su cui poggia la moltiplicazione delle cellule è coinvolto nel cancro. Dopo i geni con le informazioni per fare le proteine, e il Dna “oscuro” che li regola, c’è chi, materialmente, le proteine le fa. Un mero esecutore, si pensava. «Ma la natura non ha parti nobili e umili, non rispetta gerarchie, che sono solo nella nostra testa, ogni sua parte è indispensabile alla vita. E se non funziona può indurre malattia ». E così, analizzando i nove tipi di cancro più frequenti (prostata, polmone, ovaio, seno, utero, stomaco, fegato e testa-collo) Pandolfi ha scoperto che, in genere, l’alterazione dell’esecutore (ribosoma il suo nome scientifico) si accompagna alle mutazioni genetiche tipiche del tumore. Ma in alcuni casi, quelli dei tumori più resistenti alle cure, c’è solo l’alterazione del ribosoma. E la scoperta apre la strada a un terzo fronte di ricerca farmacologico.
«Come andò quel lancio allo stadio del baseball? — ripete la domanda Pandolfi mentre attraversiamo il giardino interno verso la mensa — Mi ero preparato, fare una figuraccia davanti a quarantamila tifosi non è piacevole, ma ovviamente il battitore avversario sparò la palla fuori campo senza pietà». Non importa. Quell’anno i Red Sox vinsero comunque il campionato e, si sa, i tifosi sono scaramantici: da allora PP è uno che porta bene.