Enrico Franceschini, La Repubblica 16/2/2014, 16 febbraio 2014
DA RAGAZZINO LO SCRISSI SUL DIARIO “DIVENTERÒ UN GRANDE SCRITTORE”
LONDRA «Ho tenuto un diario, tutti i giorni, per quarant’anni. Da quando ero un ragazzino fino a oggi. E non penso affatto che sia un’abitudine antiquata, obsoleta. Al contrario, credo che oggi sempre più gente affidi i propri pensieri quotidiani a un quaderno, anche se non è necessariamente di carta e non è necessariamente un giornalino segreto, privato, ma pubblico come lo sono Facebook, Twitter, i social network insomma».
Ma adesso anche i pensieri privati di Hanif Kureishi sono diventati un “diario pubblico”: li ha acquistati per centomila sterline, centoventimila euro, la British Library, l’eminente biblioteca nazionale britannica, uno dei custodi di libri, documenti e manoscritti più prestigiosi del mondo. Da qualche
parte nel ventre di questa futuristica balena di pietre rosse, come caduta dal cielo fra le vecchie casette vittoriane del centro di Londra, tra Bloomsbury, il quartiere di Virginia Woolf, e la stazione ferroviaria di King’s Cross, in qualche sala o seminterrato, fra la sua collezione sterminata di centocinquanta milioni di volumi, riviste e artefatti risalenti fino al Trecento avanti Cristo, ora ci sono solerti bibliotecari che stanno leggendo, ordinando e sistemando l’archivio personale dell’autore de
Il Budda delle periferie, di My Beautiful Laundrette e del recente L’ultima parola (ispirato da V.S. Naipaul, il suo padre letterario). È come una consacrazione per lo scrittore, sceneggiatore e commediografo anglo- pachistano che vent’anni or sono entrò come una furia nella casta wasp della narrativa inglese, aprendo la strada a una narrativa più etnica, globale, ricca, che dopo di lui non è più stata la stessa. «Lì dentro ci sono i manoscritti di tutte le mie opere, bozze di altre che non ho mai completato, lettere, appunti, fotografie, agende di appuntamenti e naturalmente c’è il mio diario, un journal che ho tenuto fino a pochi mesi fa», racconta lo scrittore davanti alla British Library. «Mi fa piacere che restino a Londra, perché questa, a dispetto delle origini asiatiche della mia famiglia, è la mia casa, il luogo che più amo».
È un ritorno a casa anche per un’altra ragione: in questo tempio della lettura lei ebbe il suo primo impiego, non è vero?
«Avevo vent’anni, studiavo all’università e per guadagnare qualche soldo lavoravo alla British Library, che non era ancora questa in cui ora riposano i miei scritti ma una serie di edifici più piccoli, sparsi per la città, comunque in possesso di un’aura che per me aveva un’attrazione speciale. Era come per un bambino goloso di cioccolata ritrovarsi in una pasticceria».
Perfino qualcosa di più: come per un bambino goloso di cioccolata potersi avvicinare al sogno di diventare un pasticcere: a quattordici anni già sognava di fare il romanziere, come ora tutti possono scoprire proprio leggendo la prima pagina del suo diario...
«Ho provato imbarazzo, per un attimo un pizzico di vergogna, rileggendo quelle pagine. C’è ovviamente qualcosa di infantile in un bambino che dichiara quello che vuole fare da grande. Ma per me diventare uno scrittore era come per la maggioranza dei miei coetanei dell’epoca sognare di diventare una pop star o un calciatore. A quattordici anni è normale avere sogni simili, direi anzi che è necessario. Io ho avuto l’incredibile fortuna di realizzare il mio. Quel che scrivo nel diario è vero e lo penso ancora: per realizzare un sogno devi lavorare duramente. Serve pure tanta fortuna, servono le circostanze giuste, ma senza impegno e determinazione non ce la farai mai. Anche se, ripensando ora a quel mio sogno infantile, quasi non ci credo che è diventato realtà».
Kureishi sembrava destinato ad altro: a diventare un commerciante, magari di un corner shop, quelle bottegucce che vendono giornali, dolciumi, sigarette, bibite, un po’ di cancelleria, che a Londra sono spesso gestite da pachistani; oppure un civil servant, un funzionario pubblico, altra specificità del suo gruppo etnico. Viveva in una strada del sud di Londra piena di immigrati asiatici, in un’Inghilterra che aveva governato sì un impero coloniale ma non era ancora multietnica, globalizzata e tollerante delle diversità com’è oggi. Insomma, era lontano dal mondo dei romanzi e degli editori come la Terra dalla Luna. Cominciò giovanissimo scrivendo raccontini porno sotto pseudonimo, poi drammi teatrali, quindi sceneggiature e con una di queste fece centro: «Sì, la mia vita è cambiata con My Beautiful Laundrette, il film sulla piccola lavanderia che mi ha aiutato a farmi conoscere, e ad affermarmi come scrittore». Quindi è venuto il romanzo best-seller, anzi long-seller, perché continua a vendere, Il Budda delle periferie, sono arrivati i premi, il giro degli artisti, l’amicizia con David Bowie (che ha scritto la colonna sonora di Laundrette), Daniel Craig, Vanessa Redgrave. E attraverso tutto questo, lui ha continuato a scrivere i suoi pensieri quotidiani.
Una moda ottocentesca entrata in disuso, quella del diario?
«Non direi. In disuso è il modo in cui l’ho scritto io, a mano, su piccoli quaderni. Ma trovo che oggi la gente non faccia altro che scrivere diari, anche se non li chiama così. Tutti confessano emozioni, sentimenti, pensieri sulle pagine digitali di Facebook o di Twitter, oppure affidandole a e-mail e messaggini. Mi pare che non si sia mai scritto così tanto in nessuna era precedente. Charles Dickens era noto per scrivere varie lettere al giorno, oggi chiunque invia cinquanta o cento email o sms al giorno senza contare tutti gli altri modi per esprimersi digitalmente.
Scriviamo collettivamente il diario pubblico del nostro tempo. Prima o poi qualcuno dovrà raccoglierlo in un libro e pubblicarlo».
E il suo di diario, meriterebbe di essere pubblicato?
«Non lo so. Non spetta a me deciderlo. Anche perché ne ho rilette solo poche righe. Non per pigrizia: è che l’ho scritto con una calligrafia terribile, che io stesso fatico a decifrare».
Forse non l’ha riletto anche per il timore di quello che poteva trovarci dentro. La sua famiglia, genitori e parenti, si sono sentiti strumentalizzati dai suoi libri. L’hanno accusata di averli ridicolizzati nel ruolo dei tipici immigrati pachistani.
«Non ricordo tutto quello che ho scritto nel diario. Posso dire però che la Londra di oggi è ben diversa da quella in cui sono cresciuto. È una città più gentile, più aperta, migliore. È ancora divisa in zone di estrema ricchezza e sacche di estrema povertà, ma è un posto in cui un figlio di immigrati pachistani, com’ero io, può sentirsi molto di più a casa propria».
Non per nulla il “Budda delle periferie” alla fine è arrivato fin dentro la British Library.