Pietro Veronese, La Repubblica 16/2/2014, 16 febbraio 2014
LA SCOPERTA DELLE DOLOMITI
Milleottocentosessantaquattro. Tra gli Stati americani infuria la guerra civile. La milizia del Colorado si macchia del massacro di Sand Creek, che sarà poi cantato da Fabrizio De André. In Europa Karl Marx fonda la prima Internazionale. I disordini a Torino contro lo spostamento della capitale a Firenze costano oltre cinquanta morti.
Quello di centocinquant’anni fa era, insomma, un altro mondo. In larga parte incognito, ancora pieno di mistero. Come quella parte di Alpi che si presentò agli occhi dei due viaggiatori inglesi, Gilbert e Churchill, che per primi decisero di battezzare tanta bellezza ancora ignota: Dolomiti. A quel tempo, l’Antartide era stato avvistato appena da quarant’anni. Gli esploratori continuavano ad accapigliarsi su quali fossero le vere sorgenti del Nilo. Il monte Everest, la cui altezza era stata da poco misurata, avrebbe ricevuto il suo nome soltanto l’anno dopo: restava indicato sulle mappe come “Peak XV”.
Centocinquant’anni fa le terre inesplorate non si nascondevano soltanto ai Poli o nel cuore dell’Africa. E anche la vecchia Europa conservava segreti. Bastava salire un po’ in quota per trovarvi ancora Untrodden Peaks and Unfrequented Valleys, cime inviolate e valli sconosciute, come reciterà, nel 1873, il bel titolo del libro della viaggiatrice inglese Amelia Edwards. Il mondo alpestre rimaneva in larga parte chiuso, di ostico accesso, privo di vie di collegamento, poco comunicante, poverissimo. Geograficamente, etnologicamente introverso. Pieno di monti celati nel silenzio e nel sole. Chi si ostinava, per curiosità o per diletto, a spingersi lassù, aveva le sue fatiche da affrontare. Lunghi spostamenti a piedi, talora a dorso di cavallo o di mulo, raramente in carretto. Sentieri anziché strade, fienili anziché letti, ciotole di legno come piatti, cibo improbabile, stanchezza e freddo. E la scoperta di meraviglie naturali che già da un paio di generazioni, con il gusto per il Pittoresco ed il Sublime, gli animi colti avevano imparato ad ammirare. Vette, dirupi, ghiacciai, gole, cascate.
Le Alpi andavano diventando terreno di esplorazione, di avventura e godimento estetico. Dapprima quelle occidentali: la Savoia, sulla scia della prima ascensione del Monte Bianco da parte di Balmat e Piccard l’8 agosto 1786; poi l’Oberland bernese, il Delfinato. Quasi per nulla frequentate invece le isolate Alpi orientali, all’epoca note sotto il nome generico di Deutschen Alpen, Alpi germaniche, incorporate nei vasti confini dell’Impero austriaco.
Da quelle parti si facevano vedere soltanto topografi militari e geologi, i quali avevano base all’albergo Nave d’Oro di Predazzo, uno dei pochissimi in grado di ospitare degnamente un gentiluomo. Era stato proprio uno di questi, il figlio di un marchese francese dalle simpatie rivoluzionarie, Déodat de Dolomieu, ad accorgersi, passando decenni prima nella zona — più o meno negli stessi giorni in cui i parigini avevano dato l’assalto alla Bastiglia — che quelle guglie rocciose erano fatte di un minerale particolarissimo. Un calcare che, a differenza degli altri, non dava luogo a effervescenza quando veniva trattato con acido cloridrico. La dotta cerchia degli studiosi prese debitamente nota e chiamò quella pietra, in onore del suo scopritore, «dolomia».
Queste le scarne conoscenze su quelle plaghe remote, abitate da montanari dei quali il viaggiatore francese Jules Leclercq scriverà nel 1880 che «i selvaggi dell’Africa centrale provano meno stupore di loro alla vista di uno straniero». Ma tutte queste notizie, che raccogliamo dalla ineguagliata Enciclopedia delle Dolomiti di Franco de Battaglia e Luciano Marisaldi (Zanichelli), stavano per essere travolte dalla novità. Sembrava un mondo immobi-le, e invece si apprestava a cambiare per sempre.
A trasformarlo sarebbe stata una parola. I suoi inventori furono dunque due viaggiatori britannici, Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill.
Churchill era lo scienziato, naturalista e botanico; Gilbert l’artista, abile col disegno e l’acquerello. Amavano avventurarsi alla scoperta di regioni sconosciute insieme alle loro mogli, il che ce li rende immediatamente simpatici. I due sottolineano che la presenza delle signore condiziona il loro modo di viaggiare attraverso le Alpi: «Non eravamo attrezzati con ascia né corda, né possiamo vantare perigliose ascensioni o notti trascorse nei sacchi a pelo». Ma alle loro «S. e A.», aggiungono con affetto, debbono «l’aver avuto accesso a molte case e cuori contadini che altrimenti ci sarebbero rimasti interdetti».
Gilbert, Churchill e consorti erano colti, curiosi, spiritosi, sensibili e ricchi. Se ne andavano in quattro, «Churchill con il raccoglitore sempre sotto il braccio, il suo amico col blocco da disegno, A. armata di matite e pennelli e S. nel ruolo di lettrice della compagnia, sia quando il tempo costringeva a stare al chiuso, sia, all’aperto, mentre i disegnatori erano affaccendati». S’innamorarono di quel territorio, tornandovi per tre anni successivi — 1861, 1862, 1863 — ed esplorandolo valle a valle. I due appassionati descrivono rupi «come absidi di enormi cattedrali» e crinali simili a «muri di abbazie in rovina».
Venuto il momento di pubblicare in un volume il resoconto dei loro viaggi, meravigliosamente illustrato da Gilbert, ebbero il colpo di genio: dare un nome nuovo a quelle montagne. Fu così che esattamente un secolo e mezzo fa, nel 1864 a Londra, venne dato alle stampe, per i tipi di Longman, Roberts & Green, The Dolomite Mountains, scrivendo per la prima volta il nome che oggi è sulla bocca di tutti. Volendo «colmare un vuoto nella letteratura alpina», come dichiarano nella prefazione, i due amici avevano inventato le Dolomiti e con esse un brand destinato a straordinaria fortuna e fatturato miliardario.
La parola ebbe successo immediato. I viaggiatori successivi l’adottarono subito, nuovi libri di altri autori la ripresero. Le Dolomiti divennero una moda elegante, certamente molto elitaria: Gilbert e Churchill scrivono che «per otto settimane e in oltre duecento miglia non incontrammo neanche un membro della confraternita turistica e in molti luoghi fummo i primi inglesi che si fossero mai visti». Ancora nell’estate del 1869 furono registrati a Cortina appena 236 visitatori. L’èra dei rocciatori doveva ancora venire. Sempre secondo i nostri due eroi, «le Dolomiti non sono particolarmente adatte agli scalatori». Ma inesorabilmente la fama di quelle montagne crebbe con l’apertura di ardite strade carrozzabili, di nuovi alberghi e con il soggiorno dell’imperatrice Sissi al Grand Hotel Karezza nell’agosto del 1897.
Qualcuno tentò di bocciare il nuovo nome, come l’arcigno paleontologo viennese Rudolph Hoernes, con l’argomento che non si potevano designare interi gruppi montuosi col nome del minerale che ne componeva solo alcuni strati. Perse, naturalmente. Pur avendo, a rigor di logica, ragione. Ma queste sono storie d’altri tempi. Oggi le magnifiche Dolomiti sono un sito Unesco, un copyright e un carosello di camper e turisti dal quale gli incauti Gilbert e Churchill cercherebbero invano rifugio.