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 2014  febbraio 16 Domenica calendario

DEBITI E PATRIMONI , LA SINDROME TOTÒ


Totòtruffa ‘62 meriterebbe una candidatura honoris causa ai prossimi Oscar: la vendita della fontana di Trevi è senza dubbio l’episodio più «cliccato» nell’economia della crisi che ha travolto governi e debiti sovrani. Totò-Detroit in default sotto il peso di debiti per 18 miliardi di dollari tenta di cedere i capolavori della collezione del Dia, il Detroit Institute of Art. Totò-Lisbona, sotto la pressione di un piano di salvataggio da quasi 80 miliardi di euro, vuole «privatizzare» la raccolta di 85 Miró. E a Roma, qualcuno in Corte dei Conti deve aver pensato al Principe della risata quando poche settimane fa è stato contestato (con ipotesi di richiesta danni) all’agenzia di rating Standard & Poor’s il declassamento nel 2011 dell’Italia a un passo dal livello «spazzatura» senza considerare l’immenso patrimonio artistico e culturale.
Solo che se Totò ha «venduto» almeno incassando la caparra, a Detroit e Lisbona i piani non sembrano destinati ad andare in porto. In entrambi i casi si sono sollevate proteste e preoccupazioni, che non sono rimaste inascoltate. Nella città americana i creditori hanno fatto fare una perizia sulla collezione che comprende capolavori di Caravaggio, Tiziano, Rembrandt, Rubens, Van Gogh, Degas, Matisse e Cézanne. Si è parlato di 2,5 miliardi di dollari ma alla fine sono intervenute fondazioni e cordate filantropiche per sventare la perdita per la città. A Lisbona l’asta sulle 85 opere di Miró, che provenivano dalla collezione del fallito Bpn, banca salvata dallo Stato nel 2008 che ha così nazionalizzato anche i quadri, è stata cancellata dalla stessa casa d’aste Christie’s. Di fronte alle proteste e per il timore di contenziosi.
Per quanto riguarda infine l’istruttoria aperta dalla Corte dei Conti sull’agenzia di rating Standard & Poor’s con ipotesi di richiesta di danni quantificata in 351 miliardi (117 per le manovre obbligate dal declassamento e 234 per il danno di immagine al Paese) nei giorni successivi è sembrato che da parte della stessa Corte ci sia stato un atteggiamento prudente. Secondo Stefano Baia Curioni, vicepresidente del Centro di ricerca Ask (Art, science and knowledge) della Università Bocconi, si tratta di una «specie di provocazione». Un caso simile «si era già verificato tra Finlandia e Grecia un paio di anni fa quando di fronte alla richiesta di rifinanziare Atene, a Helsinki hanno adombrato la possibilità di chiedere a garanzia il Partenone per un importo di 300 miliardi», strada che poi non è stata percorsa.
La provocazione può avere due valori: «Aprire un dibattito sulla valutazione della riserva culturale implicita di un Paese, sul modo in cui vengono valutati gli Stati e la loro solvibilità; spiegare la natura del patrimonio, spesso considerato solo come bene economico mentre il suo rapporto con lo sviluppo passa dalla capacità di contribuire a formare capitale sociale, cioè la comunità politica di un Paese». Ecco dunque la funzione identitaria del patrimonio culturale più volte sottolineata con forza da Salvatore Settis, che ha diretto a Los Angeles il Getty Research Institute e a Pisa la Scuola Normale Superiore ed è presidente del consiglio scientifico del Louvre. Capitale «economico» e capitale «sociale» possono diventare alterni punti di partenza per rispondere alla domanda: è possibile che l’Italia, in un’ipotesi «greca» di default, venda quadri, musei, siti archeologici o singoli «reperti»? Insomma: si può ragionevolmente «temere» o «auspicare» o mettere in conto che anche da noi si possano aprire casi come quelli della «storica» città Usa dell’auto o del Portogallo?
Il tema è suggestivo, ma per il nostro Paese non sembra possa andare in realtà molto oltre la suggestione: questo è in sostanza il parere di Paola Dubini, direttore del Cleacc, Corso di laurea in economia per arti cultura e comunicazione della Bocconi. E il motivo è semplice, l’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». «Si è dunque scelto di assumere tra i compiti essenziali dello Stato la promozione e lo sviluppo culturale della collettività, e in questo quadro si inserisce in primo luogo la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, che quindi è protetto al di là di valutazioni esclusivamente patrimoniali». Parole in linea con quanto sostenuto da Settis in più occasioni: «L’articolo 9 non è un’intrusione. È essenziale. La nostra Carta è già stata presa a esempio da altri Paesi, l’articolo in questione è stato copiato dalle Costituzioni portoghese e maltese. Ed è stato parafrasato da Paesi del Sudamerica». E il riferimento al Portogallo può spiegare forse in parte le ragioni della retromarcia, pur in una situazione particolare data la provenienza dei quadri messi in vendita. Prima di fare confronti o chiedersi se ciò che avviene a Detroit è «esportabile» da noi, occorre dunque tener conto delle differenze fondamentali nel quadro costituzionale e normativo.
«Negli Stati Uniti», spiega Paola Dubini, «non c’è nemmeno il ministero dei Beni culturali. In pratica patrimonio soggetto a tutela sono i parchi pubblici. Quando Obama nel 2013 rischia il default vengono “congelati” anche i rangers. E il governatore dello Utah, Stato che non può permettersi di vedersi chiudere parchi protetti come Bryce Canyon o Zion, si è offerto di intervenire». Niente «export», perciò, secondo il direttore del Cleacc: «Il nostro patrimonio culturale è costituzionalmente tutelato e in gran parte inalienabile, e perciò di valore inestimabile, perché contemporaneamente immenso e pari a zero, visto che non ha mercato. Parte di questo valore immenso, non patrimoniale, è capitale sociale. Basti pensare alle grandi cattedrali: Milano in default e quindi vende il Duomo? Ma il Duomo è in primo luogo della cittadinanza, che ha contribuito a costruirlo e conservarlo. Nelle Fabbricerie, gli enti che provvedono a preservare e mantenere questi edifici, ci sono rappresentanti di Chiesa, Stato e territorio».
Tutto il patrimonio culturale è «invendibile»? Lorenzo Casini, professore di Diritto amministrativo alla Sapienza, dove insegna anche Legislazione dei beni culturali, precisa che «inalienabili sono i beni archeologici, i monumenti nazionali, le raccolte dei musei, gli archivi; alienabili dietro autorizzazione sono i beni come gli immobili vincolati; alienabili sono infine quelli che per vari motivi hanno perso la «culturalità». Secondo tale ripartizione, in teoria, Firenze in default può vendere alcuni quadri degli Uffizi? «Stiamo parlando solo di ipotesi. Certo per i quadri una valutazione di mercato è possibile. Ma il contenzioso è “quasi” inevitabile: se anche si può valutare che una singola cessione “danneggi” la collezione, tutto si può fermare ancor prima del via». Detto questo, «la Costituzione parla di tutela, non ci dice che i beni devono essere pubblici. Tuttavia, una legge che consenta una dismissione massiccia verrebbe considerata una violazione dell’articolo 9».
Costituzione, normative, vincoli rendono estremamente fragile il terreno sotto i piedi di chi puntasse a una vendita sistematica di beni: forse anche per questo, insieme alle proteste sollevate e al dissenso silenzioso, iniziative come la Immobiliare Italia spa nel 1991 o la Patrimonio spa dieci anni dopo sono rimaste in pratica sulla carta. E per le vendite di caserme e palazzi predisposte dal governo la strada è ancora lunga. In sintesi, su Totò sembra «vincere» Gianni Rodari: «Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero/ — Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare? —/ Ma il ferroviere, pronto e cortese: — Noi non vendiamo il nostro Paese».