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 2014  febbraio 16 Domenica calendario

SOLO L’IDRAULICO BATTERÀ IL ROBOT


Commercialisti addio, resistono i mestieri manuali Ma la politica non capisce l’«automation tsunami»
«I nuovi lavori del futuro? Ci saranno ma non so dire quali. Con la rapidità e le dimensioni dei cambiamenti in atto, chi fa previsioni a dieci anni mente agli altri e a se stesso. L’unica cosa certa, quella che abbiamo toccato con mano nel nostro viaggio nell’universo digitale dal Mit alla Silicon Valley, è che con la crescita esponenziale della tecnologia aumenterà anche il numero di mestieri e professioni inghiottiti dall’automazione. Chi vuole difendersi dai robot deve puntare su lavori nei quali l’essere umano ha ancora un grosso vantaggio sulle macchine: quelli che richiedono empatia, creatività, capacità di negoziazione. Mestieri nei quali si devono motivare le persone, assisterle con sensibilità umana, ma anche ruoli per i quali serve capacità di leadership. O professioni che ruotano attorno a valori etici o di altra natura: tutti campi che un’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, non riesce a padroneggiare. Ancora».
Erik Brynjolfsson ha appena finito di discutere del suo nuovo libro, The Second Machine Age (W. W. Norton & Co Inc.) , con una ventina di giovani nell’ufficio di New York della New America Foundation e si ferma volentieri a parlare delle reazioni suscitate dalle tesi sue e del suo coautore Andrew McAfee. Il loro è il libro del momento: oggetto di molte analisi — da quelle di Martin Wolf sul «Financial Times» a David Brooks sul «New York Times» —, il saggio sul futuro dell’automazione e del lavoro ha ispirato anche una recente copertina dell’«Economist». I due accademici del Mit di Boston dicono di voler restare ottimisti perché la tecnologia comunque migliora le nostre vite e, nel lungo periodo, farà nascere nuovi prodotti e servizi che creeranno nuovo lavoro. Ma avvertono che la transizione sarà lunga. E per molti dolorosa: la distruzione di posti di lavoro continuerà e, anzi, si farà sempre più incalzante. In assenza di correttivi, le diseguaglianze sociali cresceranno ulteriormente. Dobbiamo prepararci come individui, adeguandoci ai cambiamenti del mercato del lavoro, e come collettività, spingendo la politica ad affrontare questa sfida epocale.
Siete proprio sicuri che i lavori che evaporano e la polarizzazione dei redditi nelle nostre società dipendano dalla tecnologia? Molti incolpano soprattutto la globalizzazione e altri fattori come l’aggressività del mondo della finanza o le politiche fiscali pro-ricchi dell’era Bush.
McAfee: «Siamo davanti a fenomeni complessi, certo, ma alcuni numeri sono chiari: l’America per anni ha lamentato l’emorragia di posti di lavoro trasferiti dalle sue aziende in Cina. L’esodo c’è stato, è chiaro, ma se poi guardiamo meglio, vediamo che dalla fine degli anni Novanta a oggi la Cina ha perso ben 20 milioni di posti di lavoro nell’industria, nonostante l’aumento dei suoi volumi produttivi. Evidentemente, più che spostarsi dagli Usa alla Cina, il lavoro passa sia dagli Usa che dalla Cina ai robot».
Per non essere spazzati via dalle macchine dovremo creare lo scudo di un’elevata scolarizzazione o sopravviveranno anche molti mestieri «low-tech»?
Brynjolfsson: «Nelle professioni intellettuali i numeri dicono che la spunta più facilmente chi ha un titolo di studio di livello superiore. Meglio governare le macchine che esserne governati. Ma hanno un futuro anche molti lavori che comportano un’attività fisica. Per i computer è più facile risolvere problemi di enorme complessità che conferire a un robot la capacità di muoversi in modo non ripetitivo, di orientarsi in una stanza, di trovare la porta. Anche in questo campo della robotica si cominciano a fare passi da gigante grazie a tecnologie tipo il sistema Kinect di Microsoft, ma ci sono mille lavori, da quelli degli artigiani agli infermieri negli ospedali, che per ora sono al sicuro. In altri campi, come i trasporti, le cose cambieranno: l’auto che si guida da sola prima o poi farà sparire gli autisti. Quelli più a rischio sono i mestieri intellettuali di livello intermedio basati su modelli replicabili. Prenda i commercialisti: Turbo Tax, il programma informatico che ti aiuta a compilare le dichiarazioni fiscali, è ormai popolarissimo, è stato pubblicizzato in tv anche durante il Superbowl. Per i professionisti del ramo è difficile spuntarla su un software che costa appena 39 dollari. Risultato: in America in pochi anni il numero dei consulenti fiscali si è ridotto del 17%».

Le altre professioni più a rischio?
Brynjolfsson: «Ho parlato della consulenza fiscale, ma cose simili stanno avvenendo, come lei sa bene, nel campo dei media, nella musica, nella finanza, nei supermercati, nelle fabbriche: il software si sta mangiando il mondo o almeno un pezzo di mondo. Centinaia di milioni di posti di lavoro a rischio: prepariamoci allo tsunami dell’automazione. Abbiamo tutti sottovalutato l’impatto della crescita esponenziale della capacità di calcolo, la legge di Moore. Per un po’ di anni questa moltiplicazione è stata solo sorprendente. Da un certo punto in poi i numeri sono diventati da capogiro. Per cercare di spiegarlo, nel libro abbiamo usato la parabola dell’inventore degli scacchi».
Scusate, ma allora il vostro ottimismo su che cosa si basa?
McAfee: «La tecnologia ci aiuta a vivere meglio e prima o poi anche il mondo del lavoro ritroverà un suo equilibrio. Certo, ce ne vorrà. E nel frattempo non puoi usare i poteri regolamentari per bloccare l’evoluzione delle applicazioni scientifiche. Tim O’Reilly, un guru delle tecnologie, dice che dobbiamo decidere se proteggere il futuro dal passato o cedere alla tentazione di difendere il passato dal futuro: ha ragione. Questo non significa assistere passivamente: possiamo ancora scegliere il nostro futuro. Ma dobbiamo fare delle scelte. Abbiamo la democrazia: usiamola».
Come?
Brynjolfsson: «Siamo esperti di tecnologia, non politici. Ci vuole umiltà, come nel predire il futuro. Ma se guardiamo al passato, all’esperienza della rivoluzione industriale, due cose sono chiare: le nuove tecnologie che hanno alimentato i grandi processi di industrializzazione, il vapore, il motore a combustione interna, l’elettricità, hanno avuto bisogno di parecchi decenni per maturare, per il necessario adattamento ai processi produttivi. Ci vorrà tempo anche ora. Magari l’idea giusta per creare nuove attività, nuovo lavoro, verrà dal crowdsourcing . Secondo punto. Nell’Ottocento e nel primo Novecento l’industrializzazione portò a profonde innovazioni politiche e sociali: la scolarizzazione di massa, le grandi reti di infrastrutture. Oggi siamo davanti a cambiamenti altrettanto epocali».
Martin Wolf vede rischi di tecno-feudalesimo.
Brynjolfsson: «Beh, comunque siamo davanti a mutamenti che richiedono una forte iniziativa politica. Qui, invece, la politica è distratta, si occupa d’altro, non capisce cosa sta accadendo: anziché guidare, Washington va a rimorchio», nota Brynjolfsson. Secondo il quale dobbiamo prepararci a rivoluzionare quasi tutto: dall’insegnamento alle statistiche, il modo nel quale oggi misuriamo il benessere. In scuole e università perde importanza la capacità di memorizzare, mentre diventa essenziale saper ricercare, analizzare in fretta, contestualizzare, aggiornate continuamente la propria formazione. Quanto ai numeri dell’economia, «bisogna creare un parametro diverso dal Pil che — aggiunge Brynjolfsson — è un indice obsoleto. È stato inventato negli anni Trenta del secolo scorso, ai tempi della prima rivoluzione industriale. Serviva a Franklin Delano Roosevelt che aveva bisogno di un’unità di misura per capire se le sue terapie funzionavano: un mondo che non c’è più, quelle statistiche sono da reinventare. Dobbiamo imparare a calcolare anche i benefici in termini di qualità della vita che vengono dall’utilizzo delle tecnologie digitali».
A proposito di anni Trenta e di rischi di tecno-feudalesimo, in un celebre saggio pubblicato proprio nel 1930, John Maynard Keynes, immaginando il mondo dei suoi nipoti, scrisse che il reddito a disposizione dei cittadini si sarebbe moltiplicato molte volte mentre gran parte del lavoro sarebbe stato fatto dalle macchine. Visione azzeccata, salvo che Keynes aveva anche previsto che l’uomo, liberato dalla fatica, avrebbe lavorato 15 ore alla settimana, tre al giorno, scoprendo per il resto le gioie del tempo libero. Il mondo di oggi, invece, è diviso tra gente che lavora anche 60 ore a settimana, guadagnando spesso moltissimo, ed eserciti di disoccupati o sottoccupati: dove ha sbagliato?
Brynjolfsson: «Credo che Keynes abbia sbagliato nell’illudersi che la gente avrebbe usato il reddito aggiuntivo per godersi la vita come i lord inglesi. Più gaudenti che avidi, tazze di tè e caccia alla volpe. Invece la gente tende a lavorare di più per guadagnare e consumare di più: vuole grandi tv al plasma, vuole viaggiare. Riflettiamo su questo: quello che siamo diventati, quello che vogliamo essere. La politica non può risolversi nei Tea Party che inveiscono contro la corruzione di Washington e in Occupy Wall Street che criminalizza la finanza. C’è qualcosa di più profondo, di più fondamentale: dobbiamo cercare di cambiare la conversazione dominante nel nostro Paese».