Francesco Piccolo, La Lettura - Corriere della Sera 16/2/2014, 16 febbraio 2014
RIVALUTARE TOGLIATTI
Sono nato nell’anno in cui Togliatti è morto. I suoi funerali li ho vissuti lo stesso, come capita per quasi tutti gli eventi che non abbiamo potuto vivere in diretta, attraverso un libro o un film — stavolta un film: I sovversivi dei fratelli Taviani, in cui c’è un montaggio tra le immagini reali di quei giorni e la finzione di personaggi che arrivano a Roma per assistere ai grandi funerali. A interpretare Ermanno è Lucio Dalla, che a un certo punto dice a qualcuno «io sono più comunista di te». Una frase rabbiosa e ironica, che però non sa ancora di essere una frase profetica sulla storia dei comunisti da allora fino ai giorni nostri: tutti faranno a gara a chi è più di sinistra, e intanto la storia si muoverà per conto suo. Ho letto di Togliatti nei libri degli scrittori che raccontano le loro vite e i loro incroci con il segretario, lì dove lo nomina la Ginzburg («Io quel Togliatti non lo posso soffrire!», dice il padre nel Lessico famigliare); e poi, sia ne La linea gotica di Ottieri sia nel Memoriale di Volponi, il resoconto autobiografico attraversa il mitico attentato al segretario del Pci, il 14 luglio 1948, quando le pallottole di una calibro 38 lo colpirono alla nuca e alla schiena, quando di conseguenza ci furono tumulti in tutto il Paese (diciassette morti e centinaia di feriti), furono bloccate linee telefoniche e ferroviarie e si ebbe prima la sensazione poi quasi la certezza che stesse per cominciare una guerra civile. Infine si disse che l’Italia la salvò Bartali con la vittoria al Tour, che bloccò sul nascere la rivolta dei comunisti.
In realtà, pur considerando il supporto della gioia patriottica che contribuì ad abbassare l’asticella delle divisioni, fu proprio Togliatti a fermare tutti con un appello che lo collocò per sempre dalla parte della democrazia. Gli bastò dire alla sua gente di stare calma, di non fare pazzie; e la sua gente obbedì. E soprattutto ho rivissuto gli anni di Napoli, quando Togliatti tornò in Italia dopo il lungo esilio a Mosca dai tempi del fascismo, dentro le pagine del Mistero napoletano di Ermanno Rea, lì dove racconta che uno dei suoi protagonisti, Renzo Lapiccerella, non fu scelto dal segretario come suo collaboratore futuro, a favore di Massimo Caprara. Un passaggio che nel romanzo di Rea spinge il gruppo napoletano che ha scelto di raccontare (e di cui faceva parte) ai margini del partito, e perfino ai margini di un futuro felice. I romanzi aiutano a capire gli umori, intanto che la storia cammina a passo svelto, soprattutto nel dopoguerra.
Ma questa facoltà della letteratura, Togliatti non l’accettò mai e cercò fino all’ultimo giorno della sua vita di piegare gli scrittori al consenso politico: si scontrò con Vittorini sulle funzioni del «Politecnico», e quando questi disse che l’intellettuale non deve «suonare il piffero per la Rivoluzione», Togliatti per tutta risposta fece chiudere la rivista più importante del dopoguerra. Al comitato centrale del 1957 attaccherà Calvino, reo di aver scritto un apologo sulla politica: «Il letterato che ha scritto la novelletta, per buttar fango…». Calvino era stato persino sul punto di diventare funzionario del partito e il segretario dei giovani comunisti, Enrico Berlinguer, aveva dovuto avvertirlo: «Se lo fai non ti illudere di poter continuare a scrivere romanzi». Intanto c’era Bilenchi che diceva che come comunista era disposto a seguire le idee di Lenin e Togliatti, ma come scrittore se ne sarebbe vergognato.
Il rapporto di Togliatti con la vita culturale era molto problematico, quindi. Ma irrinunciabile, come dimostra la scelta (tutta politica, è ovvio) della pubblicazione dei Quaderni di Gramsci, che daranno una sterzata potente alla costellazione di riferimenti — in fondo è davvero il primo atto di autonomia dalla dottrina sovietica, e fonda un punto di riferimento tutto italiano per le generazioni a venire. Ma appunto: a che cosa serve ricordare Togliatti oggi, in un’Italia e in una vita politica tutte diverse?
Appena finita la guerra, ciò che Togliatti sta costruendo si immette in una specie di irrisolvibile (o meglio, irrisolto) doppio canale. I cattolici e i comunisti insieme (in compagnia dei socialisti e di altri ancora), anche se senza mai confondersi, hanno appena realizzato la magnifica pagina della Resistenza al fascismo. Fondano l’Italia repubblicana, cominciano a governare fianco a fianco — con la motivazione dell’emergenza, Togliatti sarà più volte ministro. Poi il suo accordo con De Gasperi pian piano arretra: prima smette di far parte del governo (ma lasciandovi ben tre ministri comunisti). Poi, De Gasperi conclude che nell’esecutivo non c’è più posto per il Partito comunista — il presidente americano Truman aveva appena deciso che il suo Paese doveva manifestare apertamente l’anticomunismo e il segretario di Stato George Marshall scrisse all’ambasciatore a Roma, James Dunn, suggerendo di far presente a De Gasperi che era diventata ineluttabile la necessità che in Italia si governasse senza i comunisti.
Così, in quell’anno decisivo, il 1947, nasce il Togliatti più irrisolto, la cui ombra si stenderà sulla sinistra italiana fino alla caduta del Muro. Scelse — per sempre, lasciando tale eredità ai suoi successori — di fare opposizione parlamentare («fu a suo modo un moderato e un moderatore», scrisse Eugenio Scalfari quando Togliatti scomparve); non solo: ma decise di avere la pazienza di attendere il ravvedimento di De Gasperi, come se all’improvviso il resto dell’Italia potesse finalmente rendersi conto che al governo c’era bisogno dell’apporto dei comunisti. Esattamente la stessa attesa che mise in campo Berlinguer, anni dopo, dalla morte di Moro fino al terremoto in Irpinia, quando l’indignazione di Pertini per la mancanza dei soccorsi lo scosse dal torpore dell’attesa e lui decise di cambiare strategia.
Nell’uno e nell’altro caso, risulta quasi incredibile, quasi commovente, la somiglianza tra Togliatti e Berlinguer nell’avere fiducia in ciò che non sarebbe più accaduto, prima per opera degli americani e poi per ostinazione nemica di Bettino Craxi. Ma allo stesso tempo, mentre mostrava tutte le facoltà democratiche e moderate, Togliatti non ebbe mai e poi mai la tentazione di tagliare il cordone ombelicale con Stalin e l’Unione Sovietica. Così, il suo partito divenne un particolarissimo ibrido, un prototipo europeo pieno di involuzioni ed evoluzioni, progressismi e reazionarietà, passi in avanti e passi indietro, capacità di comprensione rapida degli eventi storici e ostinazione ottusa nel ricorrere alla difesa del grembo sovietico (anche per ragioni economiche, certo, è quello che si ripete da anni, ma queste ragioni non sono sufficienti a spiegare una complessità inestricabile). E su questa contraddizione — sia virtuosa (il miglior part ito comunista europeo, in senso democratico) sia viziosa (il partito più ottuso nei confronti di coloro che dissentivano) — si costruisce tutto il resto della storia della sinistra nel Novecento (e oltre).
Palmiro Togliatti era definito il Migliore, da amici e nemici. E anche questo è un marchio profetico per la sinistra italiana, che ancora oggi non riesce a togliersi di dosso il mantello della superiorità. Togliatti incarna già pienamente, in tempi (in teoria) non sospetti, la sinistra bipolare che Berlinguer realizzerà: il continuo elastico tra il desiderio di collaborazione con partiti diversi e lontani, e l’arroccamento nella solitudine dei giusti e intoccabili. Ma Togliatti è stato, appunto, pur nella contraddizione, anzi addirittura nella schizofrenia che caratterizzava i comunisti italiani, un democratico, nonostante il filosovietismo ostinato che faceva paura a tutti. Il suo filo rosso con Berlinguer è stato questo. La parte dialettica di Berlinguer, il compromesso storico, non era nata dal nulla, ma si costruiva partendo dall’idea togliattiana del comunismo in Italia — e ancora nel marzo del 1963, poco prima di morire, riproponeva «un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana».
Forse questa tesi viene dimostrata proprio quando l’idea del compromesso viene meno. Giorgio Napolitano nel 1981 pubblica un articolo intitolato Perché è essenziale il richiamo a Togliatti, e in maniera non esplicita rivolge critiche al segretario dell’epoca, Berlinguer. In quel momento prende corpo l’area migliorista del partito, quella che chiederà un lento cammino verso le riforme e quindi la collaborazione con i mondi più vicini (inteso il Partito socialista). Tesi profondamente moderna nella teoria, ma inattuabile nella pratica: perché Craxi aveva individuato nel partito di Berlinguer il nemico principale da combattere (e viceversa…).
Ma il richiamo decisivo che contrappone la scelta della diversità di Berlinguer a Togliatti è incarnato da Nilde Iotti, compagna di Palmiro per molti anni, e con altre poi irrisolte contraddizioni sulla condotta morale di un capo politico nella vita personale. Nel 1983, l’intervento di Nilde Iotti in direzione è molto duro contro Berlinguer e il suo «isolamento»: e la Iotti si richiama proprio al Migliore per ricordare a Berlinguer lo sforzo continuo e ostinato della ricerca di collaborazione. Quasi lo accusa di tradimento dello spirito togliattiano — ma anche se la sua è una presa di posizione virtuosa, sta accusando l’uomo sbagliato: Berlinguer non stava tradendo né Togliatti né Nilde Iotti né lo sforzo di collaborazione; aveva creduto nel compromesso più di chiunque, ma ormai non aveva altre possibili strade davanti a sé: constatare l’ineluttabilità dell’emarginazione a opera di democristiani e socialisti, e trasformarla in orgoglio della diversità. Fu un’intuizione politica basata sull’orgoglio, che si è trasformata in eredità solo perché l’evento tragico della sua improvvisa morte è caduto nel mezzo di quell’emarginazione politica. E quindi, oggi, siamo ancora piuttosto fermi lì, sempre ossessivamente in quel punto di svolta, in quella perfetta e ibernata schizofrenia bipolare: collaborare con gli altri per le regole o arroccarsi nella convinzione della diversità e respingere ogni contaminazione? A questa domanda, Palmiro Togliatti ha sempre dato una sola risposta. Questo è il suo insegnamento oggi, al netto dei tanti errori commessi.
Il discorso, nella sostanza, è se separare etica e politica. Se in nome dell’etica si possa tenere bloccata l’azione politica per timore di sbagliare. Togliatti, in tempi difficilissimi e con un carico ideologico quasi insostenibile, tentò sempre di tenerle insieme, anche quando fu impossibile, anche quando rendevano più evidenti le contraddizioni del suo partito; Berlinguer fece di questa pratica necessaria la base teorica del compromesso storico e poi, sconfitto dagli eventi, fu costretto a separarle, e finì per fare una denuncia etica contro i partiti quando non ebbe più a disposizione una proposta politica attuabile (mentre la questione morale doveva necessariamente accompagnarsi a una collaborazione politica). Quel germe di separazione, oggi, viene coltivato con ostinazione da alcuni puri di sinistra («io sono più comunista di te»); e quel che è peggio, è stato trasformato in un mostro illogico dal Movimento Cinque Stelle, che proprio in nome della morale onnivora si disinteressa di ogni possibile pratica politica.
Quindi, se c’è un insegnamento che di Togliatti si può conservare, spogliandolo dalle contraddizioni cui ho solo accennato, è l’ostinata propensione alla ricerca di una soluzione condivisa — che è l’essenza della democrazia parlamentare. Anche verso il fascismo, che pure lo costrinse a molti anni di esilio, ebbe un approccio da studioso, quasi da entomologo: a Mosca intitolò Corso sugli avversari le lezioni sul fascismo e Mussolini, e spiegava agli allievi che era un regime reazionario, certo, ma «di massa». E su quest’ultima questione chiedeva concentrazione e capacità di analisi. Ecco: negli ultimi vent’anni la sinistra italiana non ha avuto un segretario o un qualsiasi teorico capace di tenere un «corso sugli avversari», altrimenti non sarebbe messa così male. Molti di loro erano troppo occupati a urlare con voce rabbiosa: «Io sono più di sinistra di te».