Fabio Cavalera, Corriere della Sera 16/2/2014, 16 febbraio 2014
PETROLIO, GAS, WHISKY E VALUTA ECCO LE RAGIONI DELLO STRAPPO SCOZZESE
DAL NOSTRO INVIATO EDIMBURGO — Gli scozzesi vivono coi piedi piantati a terra. Tutti hanno uno spiccato senso di appartenenza alla loro nazione e di devozione alla bandiera, che è la croce di sant’Andrea, il santo patrono. Ma nel dibattito sul referendum del prossimo 18 settembre, il patriottismo è un valore che resta sullo sfondo. La demagogia non serve. Coloro che vogliono riconquistare la piena sovranità separandosi da Londra e coloro che invece si oppongono allo strappo dal Regno Unito concordano infatti su una cosa: più che delle gesta di Robert Bruce, che nel giugno 1304 nella battaglia di Bannockburn schiacciò il re inglese Edoardo II, è meglio preoccuparsi di questioni terrene, dunque del lavoro, dello stipendio, della sterlina (ci sarà o no l’unione monetaria che Londra respinge?) e del benessere.
Nella scheda i 4,2 milioni di votanti, compresi per la prima volta i sedicenni, troveranno una domanda con dieci parole: sei d’accordo che la Scozia debba essere un Paese indipendente? I «sì» e i «no» non dipenderanno dalla maggiore o minore sensibilità al ricordo dell’eroe che sette secoli fa sconfisse gli invasori ma, piuttosto, dalle prospettive del domani. Lacrime e sangue furono quelle versate da Robert Bruce prima di diventare sovrano scozzese e di conquistarsi l’onore e la riconoscenza eterni. Oggi contano il petrolio, il gas, il whisky e la valuta. Assai meno la storia e la tradizione. In genere, le secessioni nascono da un vissuto di oppressioni e di rivolte che si trascina nei secoli. Gavin McCrone, che fra il 1970 e il 1992 servì come consigliere economico il governo britannico e lo Scottish Office, è invece convinto che il referendum scozzese sia un caso diverso. «Qui il problema va posto in modo semplice: saremo più ricchi con l’indipendenza o non cambierà niente?». Persino Alex Salmond, l’ariete indipendentista, si lascia sfuggire veloce un’ammissione: «La nostra non è una battaglia di liberazione ma il desiderio di inseguire un nuovo modello di sviluppo».
E che tale sia il pensiero prevalente fra chi andrà alle urne lo ribadisce John Curtice, professore universitario di politica e consulente dello ScotCen Social Research di Edimburgo: «Gli scozzesi vogliono capire le conseguenze economiche e finanziarie della scelta alla quale sono chiamati». Un sondaggio che ha in mano è chiaro: se ci fosse la certezza che la piena indipendenza da Londra porterebbe 500 sterline in più di reddito annuale, la maggioranza (il 53%) darebbe l’adesione alla campagna di Alex Salmond, il leader dello Scottish National Party e first minister del governo scozzese nato dall’accordo di devoluzione stipulato da Tony Blair nel 1999. Poiché non è ancora facile districarsi fra le promesse di Alex Salmond e le contropromesse di Alastair Darling, il laburista di Edimburgo che fu cancelliere dello scacchiere a Londra ora a capo della campagna «Better Together» degli unionisti, il risultato della consultazione appare abbastanza incerto. Nelle intenzioni di voto prevalgono i «no» ma tanti, un milione, non si pronunciano e aspettano di vedere gli scenari economici. L’esito è condizionato dal portafoglio: staremo meglio? Oppure avremo da perderci?
La Scozia è una nazione in salute. Michael Fry, saggista e presidente di Wealthy Nation, associazione indipendentista di centrodestra, calcola che sia al «quindicesimo o sedicesimo posto della classifica globale del prodotto interno lordo». Ha un reddito pro capite molto alto (36.145 dollari, secondo i dati del Tesoro britannico), superiore a quello italiano (33.145 dollari) e con l’8,3 per cento della popolazione del Regno Unito ne produce il 9,2 della ricchezza complessiva, grazie a tre tesori (whisky, finanza, petrolio) che coltiva, custodisce e rivendica. Ma da Londra, particolare che i separatisti tengono in ombra, riceve una quota di spesa pubblica (12.629 sterline) superiore a quella media di tutta l’Isola (11.381 sterline).
L’industria del whisky è un fiore all’occhiello che genera profitti notevoli. Ci sono 108 distillerie, le esportazioni regalano 4,3 miliardi di sterline (8,7 l’intera filiera alimentare) alla bilancia commerciale londinese, 1 miliardo di tasse. Ogni secondo (sottolineano alla Scotch Whisky Association) nelle casse pubbliche del Regno Unito entrano 135 sterline e sempre ogni secondo 40 bottiglie vengono imbarcate per i mercati di oltre Manica. Il whisky è un brand di eccellenza in crescita ed è una fonte di lavoro e di prosperità, però non basta ad assicurare solide basi all’economia del futuro. I veri gioielli sono altri: i servizi finanziari (che raccolgono patrimoni per 520 miliardi di sterline), le banche e, in testa, petrolio e gas del Mare del Nord. È il controllo di queste risorse che induce gli indipendentisti a sostenere che la Scozia da sola sarà più ricca. Londra preme sui banchieri e sui fondi affinché si pronuncino per il no alla separazione. Owen Kelly, direttore generale di Scottish Financial Enterprise, risponde all’appello: «Maggiori guadagni se restiamo uniti, non ho dubbi». Ma da Ross McEwan, il nuovo amministratore delegato di Royal Bank of Scotland, il gigante mondiale che il governo britannico salvò nel 2008 dal crac, la risposta è gelida: «Operiamo in 38 Paesi, opereremo in 39». Il che porta acqua al mulino di Alex Salmond. E fa ammettere a Gavin McCrone (ex consigliere di Downing Street) che «la Scozia ha le carte in regola per sopravvivere come Stato indipendente». Anche perché ha in pancia il tesoro vero: petrolio e gas.
Le estrazioni nel Mare del Nord sono cominciate negli anni Sessanta. La produzione è in calo: ci fu il picco di 2,8 milioni di barili al giorno (numeri dell’Opec) nel 1999, ora è di 1,5 milioni. Ma l’industria attrae investimenti per la ricerca (13,5 miliardi di sterline nel 2013, secondo la Oil and Gas Uk, e ben 317 dal 1970), paga 6,5 miliardi di tasse al Tesoro londinese e, soprattutto ha fra i 15 e i 24 miliardi di barili accertati nelle riserve. Nicola Sturgeon, la vice di Alex Salmond, va al cuore della questione: «Il nostro petrolio e il nostro gas sono fonte di grandi benefici. Dobbiamo fare e faremo come la Norvegia. I profitti delle esportazioni li concentreremo in un fondo statale e li risparmieremo per le nuove generazioni, ciò che Westminster non ha mai voluto programmare».
La campagna per il referendum è all’inizio. Il 23 e il 24 giugno si celebrerà l’anniversario (700 anni) della battaglia di Bannockburn e dopo poche settimane ai Giochi del Commonwealth gli atleti scozzesi gareggeranno per la bandiera di sant’Andrea e non per la Union Jack. L’orgoglio nazionalista è importante ma gli indipendentisti adesso sognano più il modello Oslo che l’eroe Robert Bruce. Pragmatici.