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 2014  febbraio 15 Sabato calendario

IL COLLASSO DEL MERCATO INTERNO


MILANO
Ormai la divergenza fra mercato interno e domanda internazionale – malissimo per tutti il primo, bene e in alcuni casi molto bene la seconda – si è fatta dicotomia. Il sistema industriale italiano sperimenta la contraddizione di un export che funziona e di una domanda interna che si contrae sempre più. Prendiamo, come anno base, il 2010. Nomisma ha fissato a 1, in quell’esercizio, i livelli del fatturato totale, dei ricavi ottenuti in Italia e di quelli generati all’estero da parte delle imprese internazionalizzate. Giri d’affari reali, perché deflazionati con un indice di prezzo. I ricavi ottenuti all’estero hanno iniziato a crescere. Nel giro di tre anni, sono arrivati a superare quota 1,1. Il giro d’affari ottenuto in Italia, invece, ha incominciato a collassare: il suo indice è sceso fino a 0,82. Il dato sintetico – fra le due tendenze divergenti – è che l’indice dei ricavi complessivi è sceso a 0,9.
Dunque, perfino per le imprese internazionalizzate, si è giunti a una divaricazione pari a quasi trenta punti: ventotto, per la precisione. Per la prima volta nella storia italiana, si è dunque aperta una voragine fra le due componenti. Non era mai successo. La natura export oriented della nostra economia ha sempre avuto una solida base endogena. Lasciamo stare che la vitalità industriale italiana sia stata "sostenuta" per decenni – all’interno della transizione da una società contadina a una società manifatturiera – da politiche economiche ultraespansive, dalla spesa pubblica e da fenomeni patologici come l’evasione fiscale. Il problema è che – paradossalmente – questi quasi trenta punti di differenza fra Italia e estero, nel caso delle imprese internazionalizzate, rappresenta perfino il benchmark positivo.
La realtà è che, a fronte di una élite – corposa, ma sempre élite – di imprese ben presenti fuori dalla nostra cinta daziaria – l’economia italiana è formata da un profluvio di società che, senza un mercato di prossimità, rischia di saltare per aria. Sempre secondo Nomisma, che ha analizzato l’universo di quelle con almeno tre dipendenti, il 57,8% di esse (per la precisione 604.836) opera esclusivamente su un mercato locale: nella propria regione, o in una regione confinante. Il 20,3% (212.800 aziende) ha come mercato di riferimento – oltre a quello di prossimità regionale – tutto il Paese. Soltanto il 21,9% (229.316 società) si muove anche all’estero.
La preponderante rilevanza del mercato interno si percepisce anche adottando un altro punto di vista, incrociando cioè il grado di radicamento interno con il tipo di assetto proprietario. Nelle imprese con sede in Italia ma a controllo estero, in media il 76,7% dei ricavi sono ottenuti nel nostro Paese. Le multinazionali – quelle con almeno una consociata fuori dall’Italia – sviluppano comunque il 60,9% dei loro ricavi nel nostro Paese. Le imprese definite da Nomisma "global", ossia quelle che esportano in almeno cinque Paesi extra Ue, hanno comunque da noi poco più della metà delle loro attività.
Dunque, il problema dell’attuale recessione sta proprio nell’impatto che essa ha sulla struttura profonda dell’industria italiana. La quale resta attaccata all’albero della domanda interna. E, dunque, ne trae sempre meno linfa. Al netto del credit crunch. Al netto dei deficit sistemici, quali il costo dell’energia, l’inefficienza della pubblica amministrazione, i sovraccosti della logistica. Una questione base è appunto costituita dal crollo degli ordini che, in Italia, si trasformano in fatturato. Un nodo che si avvinghia intorno al corpo delle imprese con oltre 250 addetti, le quali ottengono in Italia il 62% dei loro ricavi. Ma che, con la violenza della recessione, si stringe al collo delle piccole imprese: quelle fino a nove addetti dipendono per l’80% del loro giro d’affari dal mercato interno; fino a 49 occupati, questa dipendenza italiana vale tre quarti.