Maria Latella, Il Messaggero 15/2/2014, 15 febbraio 2014
TRA COMPLOTTI, VELENI E TRADIMENTI GLI ADDII DELLA SECONDA REPUBBLICA
Gli arrivi a palazzo Chigi si somigliano tutti. Ogni addio è invece infelice a modo suo. Gli addii della seconda Repubblica, soprattutto. Quello di Enrico Letta è stato marchiato a fuoco dallo stesso timbro, dalle stesse parole che, prima del suo, ha preceduto molti altri addii degli anni ’90 e 2000: complotto, tradimento. Una sorta di maledizione grava sui governi che, più o meno rapidamente, si sono succeduti nella seconda Repubblica: qualcuno, Prodi e Berlusconi, è arrivato a palazzo Chigi via elezioni. Tutti, in un modo o nell’altro, ne sono usciti con la stessa convinzione: non doveva andare come è andata.
GLI SCATOLONI
La novità è che il trasloco di Enrico Letta sembra proporsi come il più rapido della storia. Già giovedì pomeriggio, mentre Matteo Renzi era ancora a largo del Nazareno, alle prese con gli interventi della direzione Pd, a palazzo Chigi si sono materializzati i simboli del trasloco: gli scatoloni. Riempiti con rapida e chirurgica precisione. Ieri, a ora di pranzo, Letta ha riunito tutto lo staff, il sottosegretario Patroni Griffi, il portavoce Gianmarco Trevisi, Fabrizio Dell’Orefici, Monica Nardi portavoce del governo, e poi il cerimoniale, i commessi. Pranzo in piedi, qualche battuta. Qualcuno ha ricordato a Monica Nardi che lasciando palazzo Chigi nel 2008, secondo governo Prodi, lei, all’epoca già nello staff di Enrico Letta, aveva salutato così uno dei commessi: «Ci rivedremo tra cinque anni». Cinque anni dopo, effettivamente, si sono rivisti, ma il passaggio di Letta a palazzo Chigi, è stato molto più rapido di quanto prevedevano. Ieri pomeriggio il presidente del Consiglio ha riempito le ultime scatole, portato via il mappamondo e i disegni che gli avevano regalato i suoi tre figli. Con loro, nel week end, tornerà alle abitudini di prima: la partita a pallone dei più grandi, il parco giochi di piazza Santa Maria Ausiliatrice per il più piccolo. Gli uomini della scorta, che dalla settimana prossima non lo seguiranno più, raccontano di averlo visto finalmente rilassato: «E’ perché si libera di noi, presidente», hanno scherzato.
Gli arrivi a palazzo Chigi si somigliano tutti. Sorrisi. Visite alle stanze. Introduzione e presentazione ai commessi. Ogni addio propone, invece, una sua propria malinconia. Alcuni lasciano memorie precise. Il primo traumatico addio di Berlusconi, per dire. Di un paio si è perso quasi subito il ricordo. L’addio di Lamberto Dini, per dire, non fu, né sembrò, segnato dalla malinconia, tutto proiettato com’era verso il suggestivo e nuovissimo «Rinnovamento Italiano», il partito che Dini, il fiorentino di moda negli anni ’90, avrebbe lanciato di lì a poco. Doveva modernizzare l’Italia, renderla internazionale come il suo creatore. Molto lodato dai media, Rinnovamento Italiano non funzionò a livello di voti. Giuliano Amato e Ciampi sono andati e venuti da palazzo Chigi, chiamati prima o poi a più alte funzioni.
Drammatico, in senso letterale, fu invece il primo addio di Berlusconi, gennaio 1995. La sera in cui il Cavaliere smise di essere anche presidente del Consiglio, lasciando un palazzo che aveva frettolosamente cercato di ridecorare, c’era, tra i suoi, un tale scoramento che, al telefono, più d’uno si ritrovò a singhiozzare. A notte inoltrata, l’ho raccontato nel libro Come si conquista un Paese, Marinella Brambilla, storica segretaria del Cavaliere, da quarant’anni a lui fedele e tutt’ora a lui vicina, fu incaricata di chiamare uno per uno i cronisti che avevano seguito le gesta del primo governo Berlusconi. L’ormai ex presidente voleva personalmente salutarli.
I DONI DI MAX
Sembra incredibile, ma anche Massimo D’Alema usò ai cronisti la stessa cortesia. Poco prima di lasciare palazzo Chigi, a seguito della sconfitta alle regionali, ci fu perfino una festicciola, salatini, aperitivo, con lo staff e le segretarie del palazzo che nell’occasione a D’Alema fecero anche un regalo. Una bella stampa raffigurante appunto palazzo Chigi. «Come a dire: d’ora in poi questo posto lo vedrai solo dipinto», commentò lui fingendo di scherzare ma in fondo commosso. Chissà se immaginava che sarebbe poi davvero andata così. Commozione manifesta e non occultata ci fu per l’ultimo giorno di Romano Prodi a palazzo Chigi. Stiamo parlando del Prodi numero 1. Per salutarlo gli impiegati si affacciarono addirittura alle finestre, con sventolio di fazzoletti. La seconda volta fu, invece, meno emotiva. Prodi riunì i ministri per l’aperitivo con spumante e supplì, pranzò con Walter Veltroni e poi fece una passeggiata in piazza Navona. «Il mio futuro? Ancora tutto da disegnare», rispondeva con preveggente saggezza a quanti gli chiedevano «e adesso che farà?».
Trionfali e malinconici, gli arrivi e partenze della seconda Repubblica avevano tutti mantenuto un loro codice, una loro rispettabile tradizione. Poi, dal 12 novembre 2011, tutto, anche sotto questo profilo, è cambiato. Quando alle 21.42 di quella sera Silvio Berlusconi consegnò le sue dimissioni nelle mani del capo dello Stato, davanti al Quirinale c’erano già migliaia di persone convinte di celebrare la fine del berlusconismo. Gridavano «buffone», «ladro», «in galera», stappavano bottiglie di spumante. Chissà cosa penseranno, ora che lo rivedono al Quirinale, sia pure solo per le consultazioni. E che dire dell’addio di Mario Monti a palazzo Chigi, sullo sfondo di una piazza Colonna nel caos, tra ambulanze, agenti, dopo l’opaco attentato dell’opacissimo Preiti e la sparatoria in cui due carabinieri rimasero feriti? Il governo di Enrico Letta cominciava così, sotto tensione. E sotto tensione è rimasto, o l’hanno tenuto, per dieci mesi.