Federico Taddia, La Stampa 15/2/2014, 15 febbraio 2014
Biografia di Alberto Manzi
«Era partito per il Perù con la sua valigetta che non faceva toccare a nessuno, con dentro barattoli di conserva: alcuni contenevano bombe a mano costruite in casa, in grado di produrre fumo e un forte boato, e lui alla dogana era velocissimo con le mani nel confondere gli agenti e aprire solo quelle con il pomodoro…». Bastano poche righe per rimanere a bocca aperta: pare impossibile immaginare con gli abiti da guerrigliero Alberto Manzi, il pacato e mite maestro televisivo che tra il ’60 e il ’68 ha insegnato con pazienza a scrivere e a leggere a milioni di italiani con il programma Non è mai troppo tardi. E invece 30 anni di assiduo impegno di alfabetizzazione a fianco degli indios del Sudamerica durante le vacanze estive, accompagnato da rocambolesche avventure per far evadere i suoi amici incarcerati dalla polizia boliviana, rappresentano uno dei tanti ritratti inediti e meno noti narrati dalla figlia Giulia nel libro in uscita Il tempo non basta mai. «Da sempre mi chiedono chi era papà, e io da sempre ho dato una sola risposta: era papà, e basta. Tutto il resto era contorno. Per me era il padre che giocava, che mi raccontava le favole, con cui facevamo lunghe passeggiate nei boschi. E sono sempre stata restia a parlare di lui perché era come distribuire pezzettini nostri, che non mi sarebbero più appartenuti. Ora, con questo lavoro di ricerca e riscoperta, mi sono riconciliata con la sua parte pubblica». Giulia oggi ha 26 anni, e a 17 anni dalla morte, ripercorre le tante vite del padre, prendendo come traccia una lunga autointervista ricevuta dalla madre Sonia Boni, seconda moglie di Alberto. Anche lei insegnante, e tenace custode della memoria del maestro, tanto da aver donato all’Università di Bologna tutto l’archivio di Manzi per la creazione di un Centro studi.
Nato a Roma nel 1924, fin da bambino Alberto mostra un talento innato per la scrittura, ma la scelta di diventare educatore matura durante la guerra in cui è arruolato in Marina. Con un diploma magistrale in tasca, al termine del conflitto riceve il suo primo incarico nel carcere minorile di Roma, con una classe di 94 ragazzi tra i 12 e i 17 anni. «Aveva solo 22 anni e il primo giorno i detenuti lo sfidarono a giocarsela: se avesse vinto lui avrebbero fatto lezione, sennò avrebbero avuto 4 ore libere – racconta Giulia –. Papà accettò, pensando dovesse giocarsela a carte: invece la sfida era a cazzotti. Gli anni da militare lo avevano rinforzato e così vinse facilmente: da quel giorno riuscì a catturare la loro attenzione, e grazie a mozziconi di matita che faceva entrare di nascosto infilandoli nei calzini, poiché era vietato introdurre oggetti appuntiti, nacque La Tradotta, il primo giornalino scritto in un istituto penitenziario per minori». A scuola, in famiglia, nell’impegno civile, nel quotidiano: ovunque Manzi cercava di mantenere fede ad un’unica norma, sintetizzata nella frase «L’altro sono io». Ed è quello che traspare nei suoi libri, primo tra tutti Orzowei pubblicato nel 1954 e diventato presto un classico della narrativa per ragazzi. «L’ho letto a 6 anni – ricorda Giulia – quando ho scoperto che Isa, il protagonista, sarebbe morto, ho pianto e picchiato mio padre per la rabbia. Lui allora mi spiegò che il lieto fine avrebbe acquietato le coscienze, mentre a volte un pugno nello stomaco aiuta a prendere consapevolezza dei problemi. Era la sua pedagogia».
Rispettare il bambino, sempre e comunque, era uno degli altri suoi principi, e che più di una volta lo portò a scontrarsi con le autorità scolastiche. Come quando a metà degli Anni 70 fu ripetutamente sospeso dall’insegnamento per il rifiuto di etichettare gli scolari, soprattutto i più difficili, con un voto. Tanto da consegnare le pagelle tutte con identico giudizio, realizzato in serie con un timbro: «Fa quel che può, quel che non può non fa». «Gli anni più difficili sono però stati gli ultimi, quelli da sindaco di Pitigliano (Grosseto), dove ha toccato con mano gli aspetti più beceri della politica, e poi la malattia: fino all’ultimo non ha voluto cedere a compromessi, fino all’ultimo ha chiesto “Onestà, onestà, onestà, e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo…”. Questo era Alberto Manzi, il mio papà».