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 2014  febbraio 15 Sabato calendario

“LA FILOSOFIA? È UN CAVATURACCIOLI”


Avvertenza (importante) per il lettore: se scorrendo questa intervista gli sembrerà a volte di smarrirsi, non deve temere che le sue capacità di comprensione si siano di colpo rammollite. Manlio Sgalambro è un pensatore tortuoso, ellittico, folgorante. Frammentario e oscuro come Eraclito, anche se per altri versi sembra avvicinarsi al suo concittadino Gorgia. Sgalambro è nato a Lentini, l’antica Leontini, 90 anni fa. Filosofo irregolare (non ha lauree, non ha mai insegnato, salvo un giovanile periodo di supplenze), scrittore, poeta, autore di testi per Battiato (e per Patty Pravo, Fiorella Mannoia, Carmen Consoli, Milva, Celentano), sceneggiatore, a tempo perso cantante (lo ricordiamo una decina di anni fa, in televisione, impassibile e surreale interprete di Parlami d’amore Mariù e La vie en rose). Per complicare un po’ le cose, il suo nuovo libro, Variazioni e capricci morali è fatto in gran parte di aforismi: flash vertiginosi, di cui spesso si stenta a spiegarsi il perché, ma che lasciano nella mente una vibrazione, una risonanza suggestiva e persistente.
Perché questo titolo,Variazioni e capricci?
«Oggi il filosofare non ha più la possibilità di seguire una linea dritta, perfetta, precisa, perché altrimenti diventa geometria – e non ci sono filosofie geometriche, adesso. Questa parte iniziale del Duemila non ha filosofie, o ha filosofie meramente accademiche. E quindi non resta che accentuare il capriccio, accentuare la variazione. E richiamarsi all’epifania joyciana. Ho fatto una specie di piccolo duello con questo altro tipo di filosofare, privilegiando il non-senso, il non-significato. È come se a un tratto il cavallo si fosse sbrigliato, avesse perso le redini - ma volontariamente - e se ne andasse al galoppo cercando di entrare e di uscire, qua, là… Un pensiero “sbrigliato”».
Chi è il filosofo, oggi? In un aforisma dice che bisognerebbe chiamarlo piuttosto detective, perché il mistero del mondo è un “giallo assoluto”. Altrove gli dà dell’imbroglione, del pazzo…
«Il filosofo è questa persona che si improvvisa il pazzo shakespeariano, e fa soltanto un buco in una certa lingua - non fa altro, apparentemente, lui crede di fare qualcosa, di pensare appunto, e fa un buco nella letteratura inglese, fa un buco in un qualsiasi posto della letteratura mondiale. È come un cavaturaccioli, gira e gira e gira per fare un buco e “sturare”, in maniera che salti il tappo e vengano fuori queste cose che io chiamo capricci e variazioni».
È questo il compito della filosofia, far saltare i tappi?
«Far pervenire a una certa illuminazione su una capocchia di spillo. Non i grandi sistemi, l’ambizione delle grandi e perverse filosofie novecentesche che cercavano di produrre una Weltanschauung completa. Io credo che si debba procedere così, ormai, che si debba andare alla ventura».
Infatti teorizza il «pensatore di ventura». Che ha il mandato di «calpestare rovine e ceneri fumanti, distruggere, distruggere, distruggere». Aleggia nei suoi aforismi la polemica contro la civiltà, contro la società e la socialità, un desiderio di celarsi: si può parlare di solipsismo?
«Non proprio. Il solipsista le proprie battaglie le gestisce benissimo proprio perché vede soltanto sé di fronte a sé stesso. Io no. Quando parlo dei fenicotteri, e degli albatros che sono perfetti a paragone della miseria dell’uomo… qui vi è un’altra cosa, un tentativo quasi nietzschiano. Nietzsche va verso il Superuomo, qui invece si va verso il Sottouomo - ma non in un senso di uomo decaduto: verso gli uccelli, appunto, verso questi esseri che fanno scomparire anche il linguaggio che si capisce “a volo”. Oggi la filosofia, per me, deve presentarsi come qualcosa che balla, come una piccola danza, una piccola danzatrice che piroetta e fa piroettare il pensiero. Ecco, il pensare che diventa una specie di piroetta».
Viene in mente il nietzschiano principe Vogelfrei.
«Perché no, perché no… Ma siamo lontani, quanto una civiltà può essere lontana da un’altra. Io non ho cercato di fare commisurazioni storiche, ma commisurazioni che vedono tutto ciò presente, presente l’albatros, presente Nietzsche, presente la lingua all’interno della quale si scrive. Ma presente di una presenza massiccia, che ti spacca, non ti carezza».
Alla fine del libro, proprio nell’ultima pagina, scrive che è «un piccolo trattato sull’infelicità». Ma la sua visione non si direbbe pessimistica. Infatti contro il pessimismo ha pubblicato almeno un paio di saggi, e anche qui avanza il sospetto «che sia solo un genere e che la retorica vi abbia un ruolo dominante».
«Il pessimismo ormai ce lo siamo lasciato alle spalle, abbiamo superato il pessimismo come anche l’ottimismo, e questo superamento è la noncuranza verso l’uno e l’altro. È una specie di leggerezza. Si ricorda come parlava di leggerezza Nietzsche? Ma qui è una leggerezza più sofferta. Nietzsche si gloriava della leggerezza, danzava. Qui invece la leggerezza ti schiaccia. Però ti deve schiacciare, perché se tu non paghi non puoi entrare. Come a teatro».
La leggerezza schiaccia, ma l’esito non è tragico: piuttosto ludico, giocoso.
«Sì, sì, dice bene, è così. Io non sopporterei la drammaticità».
Però dice che «pensare non è possibilesine effusione sanguinis».
«Perché in effetti, se mi fermo un istante, quando penso, vedo che sto spargendo sangue dalle mie piccole ferite».
Dice anche che «pensare è la cosa più schifosa»: è questa, alla fine, la sua valutazione del pensiero?
«Mah, veda, poiché io faccio questo, cioè tento di pensare, non può essere questa… Però c’è un pensare “riverito”, un pensare che viene messo nelle bacheche e proprio per questo non è rivedibile: è da questo pensare che io mi tengo lontano».
Dell’innominato soggetto del suo libro, cioè in definitiva lei stesso, dice a un certo punto che «tra i pensatori preferiva i più piccoli»: chi sono?
«Per esempio io stesso: io sono un piccolo pensatore. I pensatori che aspirano alla grandezza del pensiero - non vorrei fare nomi… ma sì, facciamone uno: Severino - suscitano immediatamente il desiderio della piccolezza».
Lei dà giudizi tranchant su molti suoi colleghi di oggi e di ieri, per esempio anche su Socrate, Descartes, Kant, Goethe, lo stesso Nietzsche…
«Perché non dovrei?».
A quali autori si richiama, allora?
«Beh… una lettura fondamentale è stata senza dubbio quella di Schopenhauer - ci sono sprofondato. E poi Nietzsche, e Wittgenstein, e così via. Ma io non li ho mai adorati né buttati via: sono stato umile e nello stesso tempo superbo, quando era il caso. Certo, quando Schopenhauer illustra la sua visione, che è così musicale… - come si dice? Mi metto in ginocchio e prego».
La metafora della musica ritorna spesso, i suoi stessi aforismi hanno un suono musicale: che cosa è per lei la musica?
«Io amo la musica della parola, mi sembra superiore alla musica della musica. Questa per me è la musica, una musica che condivido, che sento. Quando leggo qualcosa che abbia musicalità – la musicalità del romanzo, la musicalità del pensare – allora vado veramente in estasi».
E le canzonette, a cui pure si è dedicato…
«Ah ah… Vaghi ricordi, ormai».
… che cosa hanno rappresentato?
«Sono quella parte di chi a un tratto vuole respirare un’aria più leggera. In realtà io ho praticato molti generi di cose: mi andava e le ho fatte».
Lei ha cantato tra l’altro, in televisione,Non dimenticar le mie parole. Quali delle sue parole vorrebbe che non fossero dimenticate?
«Eh eh eh… Mah… non lo so. Comunque, per dirla tutta, a Non dimenticar le mie parole preferisco Manu Chao, Me gustas tú. L’ho anche interpretata con lui, sul palcoscenico a Palermo».