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 2014  febbraio 15 Sabato calendario

LA GRANDE GUERRA E L’ARCO DA SPEZZARE


MAI ci fu in Europa e Vicino Oriente una così frenetica fame di patria come nei primi vent’anni del secolo scorso. Al centro, gli anni del grande ottenebramento della ragione, la Grande Guerra 1914-1918. Quattro grandi imperi a pezzi: austro-ungarico, tedesco, russo, turco, e dopo la corsa al riarmo quella allo smembramento dell’enorme Bue squartato. Come il miele dal leone ucciso da Sansone, da tanto sangue vennero fuori le nuove patrie, e le annessioni operate dai vincitori ingrandirono, a spese dei vinti, le vecchie patrie.
All’Italia, dopo l’impresa libica, l’appetito di farsi potenza neoimperiale era enormemente cresciuto. Non fu l’idealismo dei puri irredentisti a determinare l’entrata in guerra nel 1915: i governi e i padroni italiani lasciavano predicare i D’Annunzio, i Corridoni, i Mussolini, conducendo nell’ombra vispe trattative segrete per vedere quale dei due campi avrebbe concesso di più. “Prendi il fucile — e portalo alla frontiera”: sì, ma quale? Un mese appena prima che i fanti si mettessero in marcia coi muli, i cannoni e tutto il resto, il patto di Londra (26 aprile 1915) persuase l’ambigua penisola ad abbandonare la Triplice che la legava agli imperi centrali e a scegliere, come volevano gli interventisti, l’alleanza occidentale. Il re d’Italia intascava col Trentino l’Alto Adige (la regione del Sudtirolo) fino al Brennero, la Venezia Giulia, coste e entroterra dàlmate, il Dodecànneso, una base sul Bosforo...
Non avendo ottenuto proprio tutto, l’indottrinamento scolastico fascista accompagnò sempre il ricordo della Vittoria con l’aggettivo mutilata.
Fiume, prima negata, fu presa e governata, Dio sa come, dai legionari di D’Annunzio (tra cui c’era, mi pare, un grande scrittore come Giovanni Comisso). Ma pigliavi il battello ad Ancona e sbarcavi a Zara senza uscire dai confini italiani. (Durò poco).
Cuore e mente dell’irredentismo era Trieste, città spirituale e soggetta agli influssi sottili, austriaca da secoli, cantata da Scipio Slataper nel mirabile poema in prosa Mio Carso.
E Scipio, che morì sul Podgora come soldato italiano, scriveva alla moglie fiorentina di sentirsi “slavo, tedesco e italiano”, la triplice essenza della triestinità, speziata di ebraismo del Nord e del Sud e fin dagli inizi stregata dalla psicanalisi di Freud e Weiss. Ma tutto il grande impero dei possessi asburgici era scosso da una colossale crisi identitaria: fu questa la causa prima della sconfitta. Non si va molto avanti, nel capire quei giorni, solo analizzando le vicende e gli esiti militari. La volontà di avere di essere patria fu uno dei succedanei del nichilismo della “morte di Dio”.
L’annessione del Sud-Tirolo fu madre di grane separatiste e di nuovi traumi identitari, e l’elaborazione di un modello regionale bilingue ha richiesto più di un secolo. Battisti rivendicava l’italianità del Trentino — allora poverissimo — ma poneva il nuovo confine a Ora. Ma ricordo due momenti curiosi. Goethe, arrivando a Bressanone, fa cominciare di là, dove l’italiano c’è ben poco, il suo viaggio in Italia; e io, molti anni fa, passeggiando in Trentino, mi sentii dire, da uno del posto che arava: — Qui, dove una volta comandava nostra madre l’Austria... — e non voleva saperne della sua ormai inevitabile cittadinanza italiana.
Giuseppe Rensi, il pensatore dell’Assurdo, avrebbe potuto citare tra le assurdità storiche, quella del regime fascista di voler imporre a una provincia germanofona il monolinguismo italofono. Sradicare lingue è matricidio. Oggi c’è il bilinguismo riparatore. Analogamente, l’Austria-Ungheria trapiantava sloveno nell’Istria veneto fona e nel Carso triestino, ma a Budapest e a Praga il tedesco non aveva corso che tra i vertici culturali e padronali. Kafka, Rilke, Werfel furono bilingui.
Il “grande Sventratore” Marcello Piacentini — come scrisse Antonio Cederna — fece a Bolzano, tra il 1926 e il 1928, opera del regime, l’Arco della Vittoria, inutile offesa di conquistatori per trattato a dei vinti che dieci anni prima avevamo di fronte sulla riva opposta del Piave. Mio Dio, quale vittoria? Nel 1918 l’Europa in guerra crepava di fame e di spagnola, e il soldato del Kaiser Eric Maria Remarque scriveva nel suo prodigioso romanzo: “Ero un soldato, adesso non sono altro che sofferenza”. Ecco, sofferenza è il risultato finale di tutta quella somma di eventi e combattimenti, ci fu pianto per tutti. Fu quella la vittoria: fatalità tragica e l’eccesso di dolore, su tutti i fronti, in tutte le case... Non è un’occasione meravigliosa, il centenario della follia del 1914, perché l’Italia cancelli l’Arco di Piacentini, lo demolisca con un atto intrepido, facendo un dono riparatore, e l’amicizia italo-austriaca non rimanga soltanto uno scambio turistico ma sia fatta di tutto quel che rimane di midollo patriottico autentico nelle nostre vecchie nazioni?
Un’eredità simbolica, di linguaggio simbolico immediatamente comprensibile da tutti, è il lascito della Quattordici-Diciotto. Ma certo l’Arco di Bolzano non è Redipuglia: è un simbolo che si giustifica soltanto scomparendo, e può sparire facendo appello a dei residui d’anima che mi costringo a ritenere, nel nostro e nell’altro popolo, incolumi. Un vero europeismo non è nato ancora, ma un gesto così significativo, il 4 novembre di quest’anno, gli darebbe una memorabile spinta in avanti. La marcia di Radezky e il Va’ pensiero verdiano in una piazza ribattezzata col nome di Alex Langer, l’uomo di Vipiteno, messaggero di pace, che si appese a un ulivo, durante l’assedio di Sarajevo, nell’ultima guerra balcanica. Vienna, volendo ricambiare meravigliosamente l’atto di giustizia italiano a Bolzano, potrebbe riabilitare la memoria di Cesare Battisti — sacra ad una Italia diversa, non idiotizzata dai luoghi comuni delle sue classi dirigenti — martire e vittima anche lui, anima di giusto, di un sogno generatore di una grigia, luttuosa pace.