Mattia Feltri, La Stampa 14/2/2014, 14 febbraio 2014
LETTA, DIECI MESI ROTTAMATI DA RENZI E BERLUSCONI
Il governo di Enrico Letta cominciò a sfiorire il primo agosto con la condanna in Cassazione di Silvio Berlusconi. Il titolare del Pdl avrebbe abbandonato la maggioranza - provocando la scissione del partito e la nascita del Nuovo centrodestra - soltanto a metà novembre. E però quel giorno, il primo agosto, erano già svaporati i presupposti sui cui poggiava l’esecutivo: la rielezione al Quirinale di Giorgio Napolitano, le larghe intese, la legislatura costituente. Napolitano aveva detto sì al secondo mandato a minor gloria dei partiti, presi a memorabili ceffoni nel pomeriggio d’aprile nel quale il capo dello Stato aveva firmato il secondo giuramento. E aveva parlato di stallo funesto, imperdonabili ritardi, risse incomprensibili, minimalismi sterili. «Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora il loro apporto alle decisioni da prendere», disse. Per tenere assieme «le forze rappresentate in Parlamento», Napolitano pensò a Letta, uomo non divisivo, come si dice nella neolingua del terzo millennio. In diciotto mesi si sarebbe messo mano alla seconda parte della Costituzione, rifatta la legge elettorale, riconsiderati i poteri dell’esecutivo. A metà strada - sono trascorsi nove mesi e mezzo dalla fiducia ottenuta il 30 aprile - s’è visto un po’ poco.
Il governo delle larghe intese non esiste da tempo. L’azionista di maggioranza era il Pd di Pierluigi Bersani, sbarcato in un’altra dimensione con Matteo Renzi. Scelta civica ha perso il suo leader, Mario Monti, e s’è divisa in due. Il Pdl è dissolto e Berlusconi ha cominciato a dubitare della pacificazione dal momento in cui la sua vicenda giudiziaria fu affidata alla sezione feriale della Cassazione, con sentenza anticipata. È arrivata la condanna e la decadenza da senatore e la risorta Forza Italia - perlomeno nei suoi più fiammeggianti agitatori - oggi si pente della rielezione di Napolitano e anzi lo considera la mente della congiura perenne contro il capo. Persi i sostenitori e persa la ragione sociale, il governo Letta sarebbe anche andato avanti, forse vivacchiando (ma con dati economici buoni non necessariamente per dinamiche congiunturali) se non gli fosse piombato sulla groppa Matteo Renzi.
E comunque è un governo che ha campato male. Letta aveva intascato la classica ampia maggioranza, ed era volato (30 aprile) da Angela Merkel per la pacca d’incoraggiamento e tutti i grandi del mondo - in cerimonia protocollare, Barack Obama compreso - avevano espresso le vive congratulazioni eccetera. Qualche provvedimento qua e là, come i primi pagamenti della pubblica amministrazione, e qualche conquista europea erano stati accolti col giusto ottimismo di partenza. Lo stesso per la costituzione di comitati di saggi incaricati di stendere il progetto di revisione costituzionale. Roba ottima per uno come Letta, teorico del cacciavite con cui sistemare la macchina, ingranaggio dopo ingranaggio. L’affascinante procedura artigianale non ha certamente funzionato con l’Imu, presa e modificata e poi ribaltata e poi ribattezzata in un carnevale di raggelante comicità: un errore devastante per un premier dei tempi nostri, che dovrebbe preoccuparsi di portare a casa due o tre provvedimenti popolari, intanto che ci dà dentro col cacciavite.
La squadretta ha cominciato a perdere pezzi o autorevolezza da subito. Iosefa Idem, leggendaria canoista olimpionica, lasciò il ministero delle Pari opportunità perché non aveva pagato l’Imu. Angelino Alfano, e siamo a metà luglio, scampò a una mozione di sfiducia individuale per esclusive ragioni di tenuta strutturale, visto che si era scagionato dal caso Shalabayeva con la disonorevole tecnica dell’«a mia insaputa». Annamaria Cancellieri è sopravvissuta alla sua, di sfiducia, ma i rapporti coi Ligresti l’hanno indebolita di molto. Nunzia De Girolamo è stata invece piantata in asso per faccende non edificanti ma marginali. E intanto non è che si è sentito parlare granché di altri ministri, e il caso più imbarazzante è quello di Gaetano Quagliariello alle Riforme che, sulle riforme, non è interpellato da nessuno.
Quanto ci eravamo sbagliati, il 2 ottobre, guardando la foto di Alfano e Letta trionfanti: sembravano i padroni del mondo. Berlusconi aveva deciso di togliere la fiducia al governo e Alfano, recuperato un quid, era rimasto al suo posto con qualche decina di uomini al fianco, obbligando Berlusconi medesimo a rimangiarsi tutto. Le generazione dei quarantenni, e per di più con due esemplari non proprio ardimentosi, era riuscita a mettere all’angolo il caimano, secondo una solidarietà nata anche sui campi di calcetto o attorno a quelli di subbuteo. Ma gli uomini sono tali, che cambino le epoche o più modestamente le età: quattro mesi dopo Letta va a casa, e Alfano va con Renzi in attesa di tornare con Berlusconi, i due spietati killer del governo.