Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 13 Giovedì calendario

MADE IN ITALY. I MAGNIFICI 7 CHE COMPRANO ALL’ESTERO


Dopo la vendita della Poltrona Frau agli americani della Haworth, tornano a risuonare i gridi di dolore per i gioielli del Made in Italy che finiscono all’estero. Quasi un riflesso condizionato che però non tiene conto di un dato: mentre le acquisizioni di aziende italiane da parte degli stranieri non sono aumentate negli ultimi tre anni (106 contro 109, per un controvalore sceso da 18 a 13 miliardi), nel frattempo lo shopping italiano oltre confine ha accelerato il ritmo, passando da 62 operazioni del 2011 a 70 nel 2013, per un controvalore salito da 3,3 a 4,1 miliardi. Certo, resta la sproporzione tra gli investimenti in entrata e quelli in uscita. Ma, come spiega Max Fiani, partner della Kpmg corporate finance che cura l’annuale rapporto su fusioni e acquisizioni, «è normale che il resto del mondo faccia più acquisti da noi di quanto possiamo fare noi all’estero».
La Kpmg ha in particolare individuato una pattuglia di imprese italiane che ha definito «acquirenti seriali» e che si sono contraddistinte per attivismo nel mercato delle acquisizioni internazionali: un drappello guidato dall’Eni (10 operazioni nel quinquennio 2008-13) seguita da Campari, Recordati, Luxottica, Brembo, Prysmian (cavi) e dalla sorprendente Amplifon. «Sono aziende che sono diventate leader nei propri settori» spiega Fiani «e che rappresentano un modello di come dovrebbe essere l’industria italiana. Peccato, invece, che il tessuto economico nazionale sia fatto soprattutto di imprenditori che non vedono la borsa o l’ingresso di soci finanziari come un’opportunità per crescere». Fiani si rammarica infatti non tanto che alcuni marchi italiani finiscano all’estero, ma che ci siano poche operazioni di acquisizione tra società italiane: 205 lo scorso anno per un valore di 13,5 miliardi. «Dovrebbero essere almeno il doppio, tenendo conto delle dimensioni del Paese. Invece così non ci si consolida, non si creano gruppi più grandi e più forti».
(G.F.)