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 2014  febbraio 14 Venerdì calendario

CHE COSA HANNO IN COMUNE TUTTI QUESTI OGGETTI? SONO VIDEOCAMERE CONTRO I DITTATORI


IN UN PUNTO IMPRECISATO dell’Africa, un bianco si alza e va in bagno. Trascina con sé una valigia a rotelle. Quando ha terminato, torna al suo posto portandosi dietro la valigia. Non la perde mai di vista.
Se cadesse nelle mani sbagliate le conseguenze sarebbero gravi: alcune persone potrebbero essere torturate, forse addirittura uccise. Ecco perché Wired non vi può dire a quale tavolo è seduto l’uomo, né rivelare la sua identità. E non possiamo neppure rivelare il paese in cui vive con la famiglia. Non è in Africa, comunque. Sua moglie è tormentata dall’ansia quando lui è via, e spesso è irritata quando è a casa, perché è quasi come se non ci fosse: anche una normale conversazione è interrotta dai suoi nove telefoni. Lei è orgogliosa del mio lavoro, dice lui, ma anche arrabbiata. I due sono in terapia di coppia. I telefoni squillano a ogni ora del giorno e della notte. Spesso la persona all’altro capo della linea si trova a migliaia di chilometri di distanza e teme per la propria vita. In quel momento il nostro uomo deve prendere una decisione che potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.
L’uomo deve restare anonimo, per noi si chiamerà Carlos. È cresciuto in Romania e ha prestato servizio nell’esercito. Ha una trentina d’anni, è di corporatura snella e porta la barba per sembrare più anziano. Ci siamo incontrati nella primavera del 2013 in un aeroporto africano. Ci chiede di non chiamarlo per nome in presenza d’altri, e in particolare dei colleghi, che lo conoscono con nomi diversi.
Il collega di Carlos, Oren Yakobovich, 42 anni, è un ex soldato israeliano, che conserva ancora un atteggiamento marziale. Oren ritira una macchina a noleggio e ci fa attraversare la città. Controlla ripetutamente lo specchietto retrovisore: «Non ci sta seguendo nessuno, ne sono sicuro», dice. La segretezza è giustificata: Yakobovich e Carlos gestiscono Videre, una rivoluzionaria organizzazione per la tutela dei diritti umani che si avvale di filmati video, girati in modo aperto oppure di nascosto, per mezzo di telecamere invisibili, per raccontare le sofferenze inflitte alle persone da regimi violenti e oppressivi.

IL NOME DELLA ONG deriva dal latino: “Videre est credere”. La sua missione è denunciare l’operato dei regimi tirannici con una rete di attivisti che riprendono e registrano abusi e violazioni dei diritti umani. Il gruppo opera in parecchi Stati africani e soprattutto in una nazione particolarmente turbolenta, dove il terrore è un’abitudine atroce. Videre in quel paese si appoggia a una rete di 120 attivisti talora sotto copertura (i “ricercatori”) che riprendono, correndo forti rischi personali, l’operato dei corpi di sicurezza dello Stato e dei loro mandanti politici. Ogni gruppo ha una struttura impermeabile, in cui ogni cellula non sa ciò che fa l’altra, per garantire la sicurezza di tutti. Nella sua veste di capo delle operazioni, Carlos si sente personalmente responsabile dei ricercatori, come degli altri volontari e del personale pagato che li affianca. Va avanti e indietro in aereo, facendo la spola tra i punti caldi dell’Africa, la casa di famiglia e il quartier generale di Videre a Londra. In aereo gli viene l’ansia. Non è che abbia paura di volare, ha paura che mentre è in aria qualcuno dei suoi finisca nei guai, proprio quando lui non può intervenire. La scorsa primavera un attivista è stato sorpreso a girare un video dai servizi di sicurezza del regime oppressivo cui abbiamo accennato. Questo ha portato all’arresto di un’altra persona, e un membro di Videre è stato torturato e costretto a rivelare informazioni sulla ong.

CARLOS A QUEL PUNTO HA CAPITO che erano già al corrente della sua esistenza, anche se conoscevano solo uno dei suoi tanti nomi falsi. Yakobovich sostiene che alcuni attivisti dei diritti umani corrano meno rischi quando hanno in mano una videocamera, perché le autorità sanno che le rappresaglie verranno immortalate. Tuttavia le autorità hanno la mano pesante e alcuni sono stati arrestati mentre filmavano. Per questo motivo Carlos e gli altri cercano di rendere sempre meno visibili le videocamere, senza però rendere meno efficaci le riprese (quelli raffigurati all’inizio dell’articolo sono tutti modelli dismessi). Gli apparecchi devono essere facili da usare in circostanze delicate, anche da parte di persone che non hanno familiarità con le tecnologie. Carlos è venuto per mostrare ad alcuni dei “ricercatori” più esperti gli ultimi progetti di videocamere invisibili. I membri di Videre che agiscono sotto copertura di solito utilizzano microcongegni di fabbricazione cinese, che assomigliano a chiavette usb. Ognuna di esse è dotata di una minuscola batteria ricaricabile e registra su una memoria sd. I congegni possono essere fissati al taschino della camicia ma l’obiettivo deve essere in vista. Carlos ha cominciato a studiare le microcamere cinesi: le fa a pezzi e utilizza i componenti nei suoi prototipi. Quando lui e i ricercatori sono soddisfatti di un nuovo modello, lo producono in grande quantità.

VIDERE È STATA FONDATA NEL 2008 da due israeliani che hanno avuto, all’insaputa l’uno dell’altro, la stessa idea più o meno nello stesso periodo. Yakobovich è cresciuto in una comunità della destra israeliana, nei pressi di Tel Aviv. Da giovane aveva aderito al nazionalismo fervido del suo ambiente. «Gli arabi non esistevano, erano lì ma non avevano diritti e non meritavano di avere un paese loro», ricorda. Non vedeva l’ora di entrare nell’esercito. Fu subito promosso ufficiale. Avendo prestato servizio a Gaza, Yakobovich dice di non essere mai stato così vicino al bersaglio da sapere con certezza di averlo ucciso, ma certamente ha sparato a delle persone. «Se ti trovi lungo il confine con il Libano, e vedi arrivare dei terroristi, entri e spari...», racconta. Però per la maggior parte del tempo è stato impiegato in lavori di intelligence.
Non sono stati un incidente o un’atrocità particolare a fargli cambiare idea. Si è reso conto gradualmente che le attività in cui era impegnato ogni giorno, come il controllo di uomini, donne e bambini ai checkpoint, accrescevano l’odio. Dice che i suoi commilitoni vedevano tutti gli arabi come nemici potenziali e li trattavano di conseguenza. «C’era qualcosa di molto sbagliato», dice. Un giorno si è rifiutato di andare in Cisgiordania, dove avrebbe dovuto proteggere una missione antiterroristica segreta. Ha passato un mese in carcere. «Non volevo più fare il soldato», spiega. Era un ufficiale, in prigione ha avuto un trattamento accettabile.
Finito il servizio militare è stato congedato e ha deciso di diventare film-maker. «Mi sembrava una cosa molto cool... Meglio che fare il banchiere», dice. Ha comprato una telecamera e all’inizio degli anni 2000 ha girato una serie di documentari, sperando che scuotessero gli israeliani. Uno era sui beduini, l’altro sull’istruzione dei palestinesi, un altro ancora riguardava il trattamento dei pazienti psichiatrici.
Nel 2005, spinto da un misto di frustrazione e speranza, Yakobovich è entrato nel gruppo israeliano B’Tselem, che si occupa di diritti civili, e ha dato al lavoro dell’organizzazione una spinta propulsiva, creando un’unità video e fornendo videocamere alle famiglie palestinesi residenti in zone in cui il conflitto con i coloni israeliani era quotidiano. Un frammento girato nel 2007 è diventato celebre in Israele e poi è stato trasmesso anche dalla Bbc e dalla Cnn. In una casa di Hebron una famiglia palestinese si è trovata a essere verbalmente aggredita dai coloni. E una ragazzina di 16 anni ha filmato la donna israeliana che la insultava dandole della “puttana”.
«Penso che sia stato scioccante per le persone sentire quelle parole pronunciate da una donna così religiosa», dice Yakobovich, che resta un sionista convinto. «E ancora più scioccante era vedere due soldati lì impalati che non alzavano un dito per proteggere la ragazzina». Yakobovich ha ricevuto minacce di morte e mail cariche di odio, ma è convinto di aver contribuito a far diminuire le violenze contro i palestinesi in Cisgiordania.
Dopo un po’ ha cominciato a chiedersi se lo stesso modello non potesse avere applicazioni più estese. Più o meno nello stesso periodo Uri Fruchtmann, che oggi presiede il consiglio di amministrazione di Videre, stava arrivando alle stesse conclusioni. Il suo approdo ai diritti civili è stato più insolito: uomo di successo nell’entertainment, ha prodotto diversi film, tra i quali Spice World, quello sulle Spice Girls. È stato sposato 12 anni con Annie Lennox, con la quale ha avuto due figli. Uri Fruchtmann ha 58 anni ed è un uomo riflessivo e amichevole, con un sacco di contatti importanti. Brian Eno, suo amico, poco dopo la nascita di Videre ha ospitato un ricevimento per raccogliere fondi presso i suoi studi di registrazione. Conversando con un altro amico, Terry Gilliam, ora nel consiglio di amministrazione di Videre, Fruchtmann ha avuto l’idea di sfruttare la rapida obsolescenza dei macchinari cinematografici per rilevare vecchie videocamere e usarle per documentare le violazioni dei diritti umani.
Come Yakobovich, Fruchtmann non era stato un soldato docile. Obiettore di coscienza negli anni ’70, i commilitoni lo avevano pestato perché non obbediva agli ordini. Era comparso otto volte davanti a un tribunale militare, e ogni volta si era fatto un mese di prigione. «Ho sempre cercato di combattere l’ingiustizia», racconta. I suoi genitori erano fuggiti dalla Germania nazista, perdendo tutto. Dopo il servizio militare, Fruchtmann è stato un hippie e ha girato l’Europa, poi ha lavorato in Israele come fotografo: e alla fine, proprio come Yakobovich, è diventato un documentarista, e poi nel 1997 ha prodotto il suo primo film commerciale. Oggi è uno dei proprietari degli Ealing Studios.
Fruchtmann e Yakobovich non riescono a ricordare come si sono incontrati. Fruchtmann nel 2008 era andato in Cisgiordania alla ricerca di partner per il suo progetto. «La gente mi ha detto che avrei dovuto parlare con Oren», racconta. «Ci siamo trovati e abbiamo girato insieme nei Territori Occupati». L’idea di Videre a Fruchtmann l’ha data la registrazione del pestaggio di Rodney King, un tassista afroamericano fermato per eccesso di velocità e assalito da cinque poliziotti a Los Angeles nel 1991. Un cittadino filmò gli agenti mentre manganellavano King. La registrazione fu trasmessa in tutto il mondo. Quando gli agenti furono assolti, scoppiarono rivolte. Fruchtmann, rivedendo il video, si era chiesto: se ogni violazione del codice della strada veniva registrata in video, perché non registrare le violazioni dei diritti umani? I sorvegliati che controllano i sorveglianti, «il fratellino che punta le telecamere sul Grande Fratello».
Negli uffici di Videre scorre il materiale registrato. E sullo schermo due donne, cittadine del nostro Stato canaglia, descrivono i ripetuti stupri e le violenze subite per mano di 25 uomini. «Ci hanno rapite e poi ci hanno passate dall’uno all’altro. Hanno smesso solo all’alba», ricorda. Un’altra donna era incinta, quando degli uomini sono venuti a cercare suo marito. Lui era fuggito. «Ho implorato che avessero pietà di me. Mi hanno detto che non gliene fregava nulla, che era una questione politica», racconta. «Dopo le frustate ho cominciato a perdere sangue, poi sono svenuta». L’hanno violentata ripetutamente, mentre era priva di sensi. «Più tardi li ho sentiti dire che era un maschietto. Avevo avuto un aborto. Un abitante del villaggio si è portato via il mio bambino. Non so neppure dove lo abbiano buttato». La donna ha scoperto in seguito di essere sieropositiva. Non lo ha detto al marito perché si vergognava, cosi si è infettato anche lui. Quando è andata dalla polizia a denunciare lo stupro, gli agenti «si sono messi a ridere e battevano le mani». Le donne parlano perché vogliono che i loro aggressori vengano processati. Videre ha utilizzato contatti locali fidati per rassicurare le vittime: parlando non corrono rischi. Un giorno, si augurano i fondatori di Videre, i colpevoli finiranno in tribunale.
Videre ha un ufficio in un paese africano neutrale, e qui raccoglie, lavora e distribuisce le riprese che i suoi ricercatori girano nello stato in cui imperversa il regime di terrore. A portare di nascosto il materiale oltre il confine sono agenti della ong, che viaggiano a bordo di autobus. Uno dei tre dipendenti a tempo pieno di Videre, Eddie (non è il suo vero nome) va incontro ai corrieri al terminal dei pullman, e spesso non sa chi sono, né come trovarli. Talvolta le consegne filano lisce, e l’hard drive passa di mano nascosto dentro un giornale, ma assai più spesso il corriere si perde, o ha il cellulare scarico al termine del lungo viaggio. L’impiegato di Videre allora gira in lungo e in largo per la stazione, a volte in collegamento telefonico con Carlos che sta in un altro continente, nel tentativo di identificare il corriere. Chi lavora negli uffici di Videre conosce i corrieri e i ricercatori solo con i nomi in codice: l’unico a sapere la loro identità è Carlos, che dirige l’operazione, quando è lontano, via telefono, email e Skype. Tutte le comunicazioni sono criptate. Carlos utilizza Hushmail e Tor.

TRUECRYPT CRIPTA E CAMUFFA i file e può anche proteggere gli hard drive. Se un hard drive è criptato e viene connesso a un computer che non utilizza TrueCrypt, basta un solo clic e il materiale è distrutto. Le riprese sono memorizzate su card sd e copiate su hard drive nel paese di origine, il materiale viene travestito come file mp3 o .mov e criptato. L’ufficio dispone di server potenti, custoditi all’interno di un locale cassaforte. Le riprese vengono estratte dagli hard drive prima di essere archiviate e catalogate utilizzando un software CatDv. L’archivista, Sonia (non è il suo vero nome), è una giovane donna la cui famiglia è originaria del paese dal regime feroce. Suo padre è finito in prigione e lo zio è stato assassinato. «Io non mi limito a guardare le riprese, mi ci immedesimo», dice. Il lavoro di Sonia è come cercare oro in una miniera, spiega: magari passi al setaccio 40 ore di riprese, per trovare una pepita.
Il collega di Sonia, Mike (anche questo non è un nome reale), edita le immagini per la distribuzione. «Abbiamo le riprese di un cadavere conservato in una morgue, di un uomo pestato a sangue e poi colpito da proiettili: si vedono, sono ancora conficcati nelle carni», dice Mike. Pensa che nessuno sia coraggioso quanto i “ricercatori”, che rischiano continuamente la vita.
Le immagini vengono verificate con estrema attenzione. Il contesto è analizzato, come i metadati, passati a una squadra sul campo, che compie ulteriori controlli. Le traduzioni sono affidate a più persone in modo da cogliere tutte le sfumature. E se ci sono dubbi sulla veridicità del materiale, questo non verrà diffuso.
Una volta editate, le riprese di Videre sono pronte per essere trasmesse ai media locali e regionali, ma vengono mandate in onda anche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in altri paesi grazie a Bbc, Cnn e ad altri media. Tra questi, canali YouTube specifici come Human Rights Channel. I contenuti a volte sono postati in forma anonima, e i sostenitori sono incoraggiati a twittare link e a postarli per mezzo di Storyful, nuovo social media distributore di notizie. L’organizzazione ha anche cominciato a usare inserzioni su Google e Facebook, e a produrre contenuti per affrontare direttamente tematiche specifiche. Di recente Videre ha organizzato, con riprese effettuate non di nascosto, un cortometraggio contro le mutilazioni genitali femminili. Una donna descrive come utilizzava il rasoio sulle bambine. Oggi questa donna conduce campagne contro la pratica della mutilazione. I partner locali di Videre hanno fatto circolare il film nei villaggi, e Yakobovich spiega che la distribuzione delle immagini sta avendo un notevole impatto.
Eddie ha cominciato a lavorare per Videre l’anno scorso. Il primo giorno gli è toccato guardare il video di un uomo cui avevano schiacciato i testicoli a martellate. Videre non ha mai diffuso quel video. «Questo genere di violenza estrema noi lo definiamo pornografia», dice Eddie. «Non vogliamo che i media lo mostrino. Il nostro ethos non è quello di scioccare le persone, ma di provocare un cambiamento».
Eddie, scherzando, racconta che Yakobovich prima di assumerlo gli ha ripetutamente mentito circa la natura del lavoro. La vaghezza delle affermazioni aveva dato alla faccenda un’aria equivoca. «I miei genitori pensavano che volessero asportarmi i reni», dice. Ora Eddie “mente a manetta” quando prenota alberghi per corrieri e altri personaggi, sempre usando nomi falsi e pagando in contanti. La sera stessa, Yakobovich e Carlos sono di nuovo sulla 4x4, stanchi per la lunga giornata e per i voli. Attraversano la città piena di traffico per incontrare i ricercatori appena arrivati dal paese confinante. Due di questi sono reduci da 18 ore di viaggio in pullman, mentre un terzo, noto come Il Presidente, è venuto in aereo, perché è il capo della rete di attivisti.
Carlos ha comprato per ognuno di loro un pasto takeaway composto da pollo piri piri, acqua e Coca-CoIa. Ci incontriamo in un albergo neutrale non è quello dove alloggiano i “ricercatori” e neppure quello dove siamo noi di Wired. Ci raduniamo a un capo del lungo tavolo e Yakobovich mette su un po’ di musica per evitare che qualcuno riesca a origliare la conversazione o a intercettarla: Hunky Dory di David Bowie. Carlos mostra ai tre uomini le nuove videocamere. Loro non appaiono entusiasti. Uno dei prototipi è una base modellata in gomma, su cui è possibile aggiungere una bandiera o un’immagine. Ma non è il tipo di oggetto che si potrebbe portare in giro nello Stato governato dal terrore. Darebbe nell’occhio.
Due degli uomini sono sulla trentina, l’altro è più giovane. Tutti e tre hanno moglie e figli e affrontano gravi rischi. Il Presidente racconta di come un “ricercatore” sia stato scoperto mentre filmava un raduno, e di come l’abbiano picchiato e minacciato di morte se non avesse rivelato i nomi dei suoi contatti. «Quando il capo della rete dell’uomo è venuto a ritirare le riprese, come fa una volta al mese, hanno arrestato anche lui», dice Il Presidente. «È stato terribile, lo hanno tenuto per giorni e giorni senza cibo, lo hanno pestato a sangue e poi lo hanno portato a una diga e lo hanno gettato nell’invaso. Poi lo hanno tirato fuori dicendogli: ok, adesso parla, e lui ha rivelato qualche informazione».

FACENDO RICORSO ad avvocati e faccendieri locali, Videre ha ottenuto il rilascio dell’arrestato. «Era molto scosso e addolorato, si sentiva in colpa per aver fornito informazioni. Ma gli abbiamo risposto che non c’era problema, aveva fatto bene a rivelare qualcosa. Aveva moglie e figli, e quando lui era sparito avevo fatto del mio meglio per rassicurare la famiglia. Sono persone coraggiose, ma i rischi non mancano».
Il Presidente sa che, come lo conosce Carlos, anche le forze di sicurezza del regime in questione conoscono la sua identità, se non proprio il suo vero nome. Anche lui è a rischio di arresto, ma sostiene di non averne paura. «Non mi hanno ancora preso e prego che ciò possa non accadere mai, uso ogni precauzione, ma se dovessero venire ad arrestarmi, sono pronto», dice. «La videocamera per noi è uno strumento perfetto. Credo che sia l’unico modo di ottenere un cambiamento democratico, nel nostro paese. Lo facciamo con passione, con una piena consapevolezza dei rischi. Sono pronto, ecco», conclude Il Presidente. Il più giovane dei tre uomini è appena diventato padre. Ha dato a suo figlio un nome che è un tributo a Carlos. A dispetto della sua giovinezza, Carlos per molti “ricercatori” rappresenta una figura paterna. Ci dice che molti bambini portano il suo nome, in suo onore. È solo una delle tante ragioni per cui ha così a cuore il suo lavoro e la gente.
Videre lancia campagne per la raccolta di fondi nella speranza di riuscire a estendere il raggio di azione, ma il costo personale per Carlos rimane alto, pesa molto anche sul suo matrimonio, e potrebbe diventare ancora più alto se per caso Carlos venisse arrestato. Alla fine lui e Yakobovich, terminata la riunione con i ricercatori, tornano al loro albergo. Il lavoro che resta da fare è tanto. Ne vale la pena? «Sì», dice Carlos. «Ma non potrei vivere così in eterno».

DAVID JAMES SMITH scrive per il Sunday Times Magazine.
Nel 2012 è stato nominato reporter dell’anno.


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