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 2014  febbraio 12 Mercoledì calendario

PARADISO PERDUTO


IL COMITATO DI BENVENUTO SCENDE DAL VILLAGGIO. Tre degli uomini portano corone di penne gialle di tucano, bracciali di piume rosse, anch’esse di tucano, stretti sulla parte superiore del braccio, mentre i loro prepuzi sono nascosti da piume rosse più piccole, legate insieme da sottili stringhe. Appoggiati alle spalle esibiscono archi e frecce di mirabile fattura. Il più alto, di nome Piraí, siede su una delle panchine dietro l’ufficio del Dipartimento brasiliano agli Affari Indigeni (Funai) di Juriti, dove mi trovo ora, con accanto la moglie, Pakoyaí, che indossa una gonna di foglie di palma tucum intessute con incredibile maestria. Il figlio, Iuwí, si trova a destra del genitore, alle cui spalle scorgo il padre di quest’ultimo, Pirahá.
Pirahá mi saluta con un grande sorriso, un sorriso in cui percepisco il compiacimento di una persona con un profondo senso dell’assurdo, che apprezza le immancabili sorprese stravaganti dell’esistenza, proprio come è solito fare chi è quasi al termine della vita. Sta ascoltando il melodioso verso di un uccello nascosto nel fitto della vegetazione poco lontano. Il nostro incontro in una delle ultime oasi di foresta pluviale ancora intatta nell’Amazzonia orientale avviene nel mezzo di un vero e proprio ecosistema. Piraí comincia a parlare in portoghese con voce composta ed emozionata. «Noi siamo gli Awá. Non riusciamo più a sostentarci con le nostre galline e le nostre mucche. Non vogliamo abitare in città. Desideriamo vivere qui. Siamo molto coraggiosi, ma abbiamo bisogno che ci stiate accanto. I Ka’apor e i Guajajara (tribù vicine con cui gli Awá hanno relazioni abbastanza tese) stanno vendendo il loro legname ai bianchi. Noi non vogliamo i loro soldi e le loro motociclette. Non vogliamo nulla dai bianchi, se non continuare a vivere secondo le nostre tradizioni e a essere chi siamo. Vogliamo solo essere gli Awá».
Iuwí comincia quindi un discorso appassionato nella sua lingua madre, che nessuno di noi comprende, ma le sue parole trasudano una tale convinzione e un profondo orgoglio che mi commuovo. Ho davanti a me due coraggiosi e alteri uomini Awá, padre e figlio, entrambi giovanissimi: non ci sono molte altre persone nelle vicinanze, dati demografici alla mano, da contrapporre ai madeireiros, i taglialegna che stanno abbattendo i loro alberi e uccidendo i loro animali e che si aggirano a pochi chilometri da dove ci troviamo, e le migliaia di altri invasores che illegalmente si stanno insediando sulle loro terre e stanno convenendo la foresta in pascoli.
Ripenso a tutti i discorsi fatti dai coraggiosi nativi nelle due Americhe negli ultimi cinquecento anni, alle parole con cui hanno cercato di salvare il proprio popolo, il loro mondo e il loro stile di vita, pur non riuscendo ad arrestare l’inevitabile e brutale avanzata del conquistatore e del suo «progresso», e a come ciò stia forse accadendo proprio qui, a quel che rimane di una tribù arrivata allo scontro finale.
Gli Awá appartengono a un popolo della foresta dalla peculiare statura bassa. Questo aspetto è un adattamento all’ambiente in cui vivono, una caratteristica che accomuna uomini e animali. Una corporatura esile consente infatti di muoversi con maggiore facilità e senza intralcio. Gli Awá più anziani, come Pirahá, hanno lunghi capelli arruffati e ampi sorrisi. Nonostante tutte le loro vicissitudini, hanno un aspetto sereno: sono felici di essere ancora dove sono e agli ospiti dimostrano il loro modo di essere con l’espressione radiosa dei visi. Tra le donne e i bambini si scorgono volti meravigliosi, zigomi importanti che si assottigliano verso il mento, nasi prominenti e incurvati verso la punta, grandi occhi a mandorla neri come il carbone che brillano di vivo interesse. Alcuni dei bambini sembrano essere frutto di unioni tra consanguinei. Molti matrimoni avvengono infatti tra parenti stretti, non essendoci molte alternative. Gli uomini superano per numero le donne e alcune di loro hanno più mariti, terreno fertile per la poliandria, un accordo nuziale alquanto raro e riscontrato soprattutto in Tibet. Alcuni uomini però hanno più mogli: la situazione quindi è controbilanciata da un certo grado di poliginia. Vige una certa flessibilità sulla scelta della persona con cui dividere il letto. Le donne Awá sanno che è meglio non rimanere incinta da un unico maschio: devono fare sesso con più uomini, in genere tre. La riproduzione è quindi uno sforzo collettivo, di gruppo, e tutti gli uomini che si uniscono a una donna diventeranno il padre del figlio che nascerà dalle loro unioni. È la prima volta in vita mia che mi confronto con il concetto di «paternità al plurale».

SONO PARTITO DUE GIORNI FA DA SÃO LUÍS, capitale del Maranhão, lo stato più orientale dell’Amazzonia brasiliana, sulla costa atlantica settentrionale del Paese. Dopo aver viaggiato per quasi 500 chilometri in direzione sud su strade sempre più dissestate e aver camminato in una foresta rigogliosa per un’altra manciata di chilometri, ho raggiunto il centro di protezione etno-ambientale di Juriti, nel territorio indigeno Awá, che si estende per quasi 120 mila ettari. Gli Awá di Juriti sono composti da tre gruppi «contattati» (entrati in contatto con il mondo dei bianchi per la prima volta) rispettivamente nel 1989,1992 e 1996, e considerando le nascite registrate da allora la loro popolazione ammonta a 56 persone. Esiste anche un altro centinaio di Awá mai entrati in contatto. Gli Awá di Juriti continuano a inoltrarsi nella foresta per andare a caccia ogni giorno e conservano lo stesso aspetto e le stesse tradizioni che avevano prima di venire a contatto con la modernità. La loro unica concessione alla civiltà è che indossano quasi sempre indumenti, coltivano orti e cacciano con il fucile, con l’unica eccezione degli anziani, che preferiscono i più tradizionali archi.
Gli Awá appartengono agli oltre 800 mila «indiani» del Brasile, suddivisi tra circa 239 culture diverse, parlanti più o meno 190 lingue distinte. Tuttavia, costituiscono solo lo 0,4 per cento dei 200 milioni di abitanti della nazione.
È incredibile pensare che esistano ancora nativi mai entrati in contatto con l’uomo bianco in una zona così devastata dell’Amazzonia. Sono quarant’anni ormai che la frontiera della modernità, con le sue motoseghe, i bulldozer, i taglialegna, i coloni abusivi e gli allevatori, sta erodendo a poco a poco i confini della foresta degli Awá. Strade illegali per il traffico altrettanto illegale di legname hanno penetrato la vegetazione fino a pochi chilometri da dove si aggira uno dei tre gruppi conosciuti di isolados. Survival International, difensore di questo popolo, ha classificato gli Awá come la tribù più in pericolo di estinzione sulla Terra. Il Funai li ha inseriti nella categoria delle popolazioni più vulnerabili, quelle da «allarme rosso», per intenderci.
Survival International si è rivolta a Sebastião Salgado, che a sua volta mi ha invitato a unirmi a questa spedizione che ha lo scopo di attirare l’attenzione mondiale sulla situazione difficile in cui versa questo popolo e di convincere il ministero della Giustizia brasiliano a sfrattare gli invasores affinché gli Awá e la foresta da cui dipende il loro sostentamento possano vivere in pace una volta per tutte. Non c’è tempo da perdere. A quanto pare l’intero iter burocratico è stato seguito alla lettera, un processo iniziato negli anni ’70. Nel 2009, è stata emessa un’ingiunzione di sfratto da un giudice federale di São Luis, che ha descritto la situazione come «un vero e proprio genocidio», ma tale sentenza è stata in seguito annullata. Nel 2011, il giudice Jirair Aram Meguerian ha ordinato al governo brasiliano di sfrattare i taglialegna illegali. Tuttavia, questi sono ancora lì: una congrega anarchica di famiglie, alcune delle quali ricchi fazendeiros, con antenne satellitari e pannelli solari sui tetti delle case, anche se la maggior parte di loro sono posseiros, indigenti nullatenenti che occupano abusivamente le terre del demanio, privi di istruzione, che vivono in tuguri di fango con tetti ricavati dalle foglie delle palme babaçu. Il ministero della Giustizia deve quindi promulgare l’ordine di sfratto, un’operazione congiunta eseguita dalle forze di polizia, dall’esercito, dal Funai e dall’Istituto brasiliano delle risorse naturali rinnovabili e ambientali. È comprensibile che il ministero dimostri una certa riluttanza a eseguire questo ordine perché la situazione potrebbe degenerare in violenza e, non da ultimo, perché molti degli invasores rientrano nei milioni di brasiliani disoccupati e senza casa di cui proprio il Partito dei lavoratori si è impegnato a migliorare le sorti. Inoltre, gran parte della terra dello Stato del Maranhão è in mano a una ristretta oligarchia di ricchissimi proprietari terrieri che gestiscono la maggior parte del commercio di legname e non hanno tanto in simpatia gli indigeni.
Sono passati 10 anni dalla demarcazione dei confini del territorio degli Awá, 8 dalla consegna ufficiale del diritto di possesso alla tribù, e 2 dall’ingiunzione di sfratto: nulla sembra essere accaduto se non l’arrivo di altri invasores e l’abbattimento di altri alberi.
Si è già aperta una «breccia» disboscata di quasi 20 chilometri sul confine sud-orientale del territorio: l’ho attraversata in auto e non ho visto nemmeno l’ombra di un solo albero. Sarà un’impresa davvero ardua far sgomberare gli invasores da questa terra.
Carlos Travassos, responsabile del coordinamento generale del Funai per gli indigeni contattati e non contattati, durante il viaggio mi racconta che delle circa 239 tribù presenti in Brasile, gli Awá isolados sono uno dei tre gruppi ancora nomadi. Cacciano con archi e frecce e raccolgono frutta, noci e miele nella foresta. Non vivono in villaggi, non coltivano la terra, né vogliono avere a che fare con il mondo esterno, di cui sono ben a conoscenza, dato che membri delle loro comunità sono stati uccisi dalle nostre armi e malattie. Ma non si rendono conto di vivere in una nazione chiamata Brasile, non conoscendo il concetto di «nazione», né il fatto di condividere un intero pianeta con sette miliardi di kanai, il termine Awá che definisce chiunque non appartenga alla tribù.

ISOLADOS E VAGANTI
SECONDO IL FUNAI, nell’Amazzonia brasiliana esistono 66 gruppi tribali non ancora contattati e circa altri trenta gruppi etnici non confermati, un numero elevatissimo rispetto ad altre zone del pianeta. Carlos Travassos è sicuro che all’orizzonte ne spunteranno altri a mano a mano che la «fortezza verde» verrà assaltata dall’esterno. I sertaristas (esperti del sertão, l’entroterra brasiliano) del Funai avevano il compito delicato e pericoloso di mettersi in contatto con loro, ma a partire dal 1987 la loro politica è cambiata: si è evitato cioè qualsiasi contatto con gli isolados se non strettamente necessario, intervenendo solo se il benessere e lo stile di vita degli appartenenti alle varie tribù erano in serio pericolo. Travassos, che è di San Paolo e che ha cominciato a lavorare sul campo in una delle favelas della metropoli, ha solo 33 anni ed è pieno di energia, avendo preso a cuore il destino di questa gente. Discutiamo sul fatto che il concetto di «indigeno non contattato» non esprima con esattezza la realtà. La maggior parte dei villaggi isolati individuati mediante la ricognizione aerea ha piantagioni di banane e questo frutto è stato portato nel Nuovo Mondo dai portoghesi: ciò indica pertanto che una qualche forma di contatto ci deve essere stata nel corso dei secoli. Come definizioni alternative sono stati proposti «autonomo» e «apolide», ma in queste categorie rientrano milioni di persone che vivono anche marginalmente nel nostro mondo.
Salgado e io siamo concordi sul fatto che questa discussione non sia valida solo per gli Awá. È giunto il momento per tutti i popoli che condividono la loro stessa situazione – gli indiani dei 688 territori indigeni brasiliani, i 370 milioni di indigeni nel mondo, il 40 per cento dei quali organizzati in tribù, che per secoli sono stati trattati nel peggiore dei modi in ogni continente da europei che sono arrivati, hanno conquistato e hanno depredato – di venire considerati e supportati. Questo è il loro momento e nutriamo la speranza di poterli aiutare. Ho l’impressione che in Brasile sia proprio giunta quell’ora, in concomitanza con il mio arrivo. Nei giorni che hanno preceduto il nostro viaggio, gli indigeni Terena si sono scontrati con i proprietari terrieri del Mato Grosso do Sul, a sud dell’Amazzonia. Il motivo del contendere: il ministero della Giustizia aveva sottratto la terra ai proprietari a favore degli indigeni, cui di diritto appartiene, e in seguito l’aveva restituita di nuovo ai proprietari. Alcuni Terena avevano quindi appiccato fuoco a molte delle abitazioni fortificate dei fazendeiros. In seguito all’intervento della polizia federale, un indigeno Terena è rimasto ucciso da un colpo di arma da fuoco. Prendendo a prestito le parole del musicista e cantante Antonio Carlos Jobim, il Brasile non è un Paese per principianti.
Un ampio segmento della popolazione considera gli indigeni maladras (pigri fannulloni) che non sono in grado di dare il proprio contributo alla società. Perché un misero 0,4 per cento di popolazione dovrebbe possedere il 13 per cento della superficie della nazione quando milioni di brasiliani sono senza terra? I ruralistas, ovvero i proprietari terrieri conservatori, costituiscono una potente lobby al Congresso nazionale a Brasilia, e le società minerarie e le imprese del comparto del legname non vedono l’ora di mettere le mani sulle terre degli indigeni. Per vedere con i nostri occhi come apparirebbero questi territori qualora i ruralistas avessero il sopravvento, non abbiamo dovuto fare altro che sporgerci dai finestrini del nostro pick-up durante il viaggio verso Juriti. La foresta amazzonica un tempo occupava la metà occidentale del Maranhão: secondo i più recenti rilevamenti satellitari, ora il 71 per cento è andato in fumo e oltre la metà di ciò che rimane si trova nei territori indigeni, complessivamente deforestati al 13 per cento. Il territorio stesso degli Awá ha una percentuale di deforestazione pari al 30 per cento. Per l’intera giornata abbiamo attraversato lussureggianti distese di erba fitta, punteggiate dal biancore delle mandrie di zebù al pascolo su una terra che un tempo era occupata dalla rigogliosa vegetazione della foresta.


MAI FERMARSI SOTTO UN GUARIBA
DURANTE LA MIA PERMANENZA di dieci giorni a Juriti, prendo l’abitudine di addentrarmi nella foresta ogni mattina in compagnia di Patriolino Garreto, uno dei tre chefes de posto del Funai che si alternano a rotazione, e di qualsiasi altro Awá che dimostri il minimo di interesse a unirsi a noi. In genere veniamo accompagnati solo dagli adolescenti. Patriolino ha lavorato presso la stazione di Juriti fin dal 1994. Non parla la lingua Awá e non conosce molto della loro cultura. «Os mitos deles só eles que sabem» («Solo loro conoscono i loro miti»), dice mentre risaliamo il crinale che sovrasta il villaggio.
«Pacca, anta, queixada, veado, guariba», Patriolino mi snocciola i nomi delle principali prede degli Awá: aguti, tapiri, pecari, mazama grigio (una specie di cervo), aluatta bruna (scimmia urlatrice). «La nostra foresta è piena di carne prelibata», continua, «ma molta se n’è già andata». Un rumore assordante e ritmico ci spinge ad avvicinarci a un grosso picchio nero con un ciuffo rosso e guance bianche che becchetta a raffica un albero morto. Ci fermiamo a osservare la processione di una trentina di formiche tagliafoglie, ciascuna delle quali trasporta in verticale un frammento verde le cui dimensioni sono incredibilmente più grandi dell’insetto stesso: quel materiale costituirà il pacciame per le loro coltivazioni di funghi. Poco dopo ci ritroviamo in una spianata di circa un’ottantina di metri. Nessuno dei piha, piccoli passeriformi, grigi della famiglia dei Cotingidi, è visibile nel fitto fogliame della foresta, ma l’assordante fischio collettivo che echeggia perfora i timpani. Il canto dei piha fa da padrone nel panorama «sinfonico» della foresta amazzonica. Uno dei ragazzi Awá che ci accompagna sa imitare alla perfezione questo verso a due note. Gli Awá sono abilissimi imitatori di uccelli e scimmie, qualità essenziale per un popolo che trae il proprio sostentamento dalla foresta. Patriolino racconta che quando si sente il canto di un piha significa che l’acqua non è lontana. A conferma, ben presto ci imbattiamo in un brejo, una piccola palude circondata da palme di açaì, le cui bacche blu scuro dalle notorie proprietà antiossidanti vengono vendute nei negozi di cibi salutistici di tutto il mondo.
I ragazzi sgattaiolano su per una pianta rampicante che si inerpica lungo il contrafforte svasato di un albero di sapopema (Sloanea retusa), il loro tipico modo di andare alla ricerca di miele, ma a poca distanza ci imbattiamo in un altro sapopema torreggiante, abbattuto nel bei mezzo della foresta con una motosega. Patriolino mi spiega che pochi giorni prima alcuni Awá avevano chiesto in prestito la motosega del Funai e avevano abbattuto l’albero per recuperare il miele nascosto nella sua sommità risparmiandosi così la fatica di scalarlo. Chiedo a Patriolino: se un cacciatore incontrasse una madre di tapiro, il più grande mammifero terrestre nell’ecozona neotropicale, con i suoi cuccioli, li lascerebbe andare, dato che la cacciagione scarseggia e che anche gli Awá, come i madeireiros, cacciano con i fucili? Per caso hanno il senso della salvaguardia della natura? «Non la pensano in questo modo», mi risponde Patriolino secco, «un tapiro sfama un intero villaggio per una settimana».
In lontananza echeggia lo sparo di un fucile. Iuwí ha appena abbattuto un guariba, la scimmia urlatrice, la principale fonte di proteine per la sua gente. I ragazzi vanno anche alla ricerca del miele di alcune api tiuba nei fori di un albero inari, lo tirano fuori con le mani a cucchiaio e lo avvolgono nelle ampie foglie di aro, una pianta che prolifera nel sottobosco della foresta, asportano una striscia di corteccia di pauari, che usano come corda per legare il loro fagotto, e uno di loro se lo mette in spalla. «La foresta da tutto agli Awá», conferma Patriolino.
Iuwí emerge dal fitto della vegetazione con il cadavere della scimmia. Questo animale è cosi importante per gli Awá da essere classificato con nomi più vicini al mondo umano rispetto alle altre scimmie. L’esplosione delle loro urla all’alba e alla fine del giorno assomiglia a raffiche di vento che attraversano le porte del regno dei morti. Patriolino mi avverte di non fermarmi mai sotto un guariba che urla, perché di sicuro diventerei bersaglio dei suoi escrementi.

COMUNITÀ IN FUGA
IL GIORNO IN CUI I PORTOGHESI COMPARVERO SULLA SCENA cinquecento anni fa, gli Awá avevano villaggi e piantagioni ed erano più o meno in un costante stato di guerra con i Ka’apor, loro vicini. I portoghesi li resero schiavi e regalarono loro il vaiolo. Dopo aver vissuto sulla propria pelle l’esperienza della loro vulnerabilità di agricoltori sedentari, si trasformarono in cacciatori-raccoglitori, ovvero svilupparono la capacità di levare il campo in fretta e furia e scappare in pochi minuti. La loro presenza nel Maranhão è stata documentata per la prima volta nel 1853. Con l’arrivo del nuovo millennio si erano spostati nell’area tradizionale di una popolazione locale, i Guajajara, la tribù più popolosa del Brasile, forte di oltre 20 mila unità, in contatto con gli europei da maggior tempo, dal momento che alcuni francesi si erano imbattuti nei loro insediamenti nel 1615. Essendo numericamente inferiori, gli Awá hanno dovuto tenere un profilo molto basso e confondersi con la foresta. Quando, nel 1973, gli Awá hanno avuto i primi contatti con la civiltà esterna, avevano perso qualsiasi capacità e interesse nell’agricoltura, dimenticandosi persino come si fa ad accendere un fuoco.
Molti Awá morirono nel ventennio 1960-1980, soprattutto dopo l’instaurazione della dittatura militare nel 1964, durante la quale venne adottata una politica di «assimilazione» delle popolazioni indigene che prevedeva lo sterminio dei riluttanti, cioè di quelli che ostacolavano il «progresso» e l’unificazione nazionale. Il governo in quel periodo bombardò i loro insediamenti e fornì partite di zucchero avvelenato con l’arsenico. Molte di queste atrocità sono state messe nero su bianco nelle settemila pagine del rapporto Figueiredo del 1967, un dossier che portò allo smantellamento dell’Agenzia per la protezione degli indigeni, i cui dipendenti si erano macchiati di molti dei crimini descritti, e alla fondazione del Funai e di Survival International, creata nel 1969 da un gruppo di britannici inorriditi da un articolo apparso sul Sunday Times Magazine di Londra che parlava del genocidio che si stava verificando nell’Amazzonia brasiliana. Ci sono altre storie di massacri di Awá nel corso degli anni.
Recentemente, nel 2011, si racconta che una bambina Awá di otto anni appartenente a un gruppo di isolados di un altro territorio indigeno si sarebbe imbattuta in un accampamento di taglialegna, e sarebbe stata legata a un albero e bruciata viva in segno di ammonimento per tutti gli altri. Secondo Travassos, però, molti altri Awá sono morti di influenza e per mano dei Ka’apor, loro nemici storici.

ULTIMA FRONTIERA
DI RITORNO DALLA NOSTRA CAMMINATA NELLA FORESTA ci fermiamo al villaggio. Parecchie donne se ne stanno sedute sulle loro amache, impegnate a infilare perline per creare bracciali e collane. Sul villaggio aleggia un certo squallore: dappertutto si incontrano stracci, spazzatura in decomposizione e ossa di qualche pasto consumato in fretta. Gli Awá non sono abituati ad abitare in villaggi stanziali e non hanno imparato le nozioni igieniche di base, come per esempio spazzare l’insediamento ogni giorno. Ad alcuni pali sono legati i piccoli degli animali cacciati, «orfani» degli stessi genitori abbattuti dai mariti di queste donne e da esse adottati come figli surrogati, arrivando al punto di allattarli. Incrocio una coppia di coati rossi, dalle splendide code ad anelli marroni e fulvi, una scimmia notturna dagli occhi sporgenti e una spelacchiata scimmia saki barbuta dall’aspetto stralunato.
Gli Awá si stanno abituando alla mia presenza. Takwaré, un adolescente, mi taglia i capelli in perfetto stile Neymar, corti ai lati lasciandoli più lunghi al centro, un po’ alla moicana. I ragazzini devono aver visto questo calciatore, un vero dio nazionale, in qualche partita alla televisione durante qualche visita alla clinica di Santa Inês, a metà strada tra questo insediamento e São Luís.
Dopo un po’ che sto qui, in alcuni membri del Funai che ci accompagnano avverto un senso di rassegnazione. «Che ci stiamo a fare qui? Che cosa possiamo davvero fare per questa gente?», mi confida uno di loro. «Perché mettiamo a rischio le nostre vite quando comunque perderanno le loro radici culturali? Ogni volta che me ne vado da qui, scoppio a piangere». Nella veranda ci sono tre fucili e alcune cartucciere cariche nel caso venisse in mente a qualche madeireiro o pistoleiro di fare una visita a sorpresa. Sulla frontiera dell’Amazzonia soffia il vento del Selvaggio West.
Un pomeriggio, mentre me ne sto seduto nella mia stanza, nel vano della finestra appare il largo sorriso di Takwarenchia, uno degli anziani. Gli faccio vedere il catalogo di una mostra sui popoli tribali intitolata No strangers (Nessuno è straniero), organizzata alla galleria fotografica Annenberg di Los Angeles all’inizio di quest’anno. Takwarenchia emette un’esclamazione di apprezzamento ogni volta che volto pagina. Iniziamo quindi a insegnare l’uno all’altro la nostra lingua. Mi indico il naso e dico «naso». Osserva il movimento delle mie labbra e ripete «naso». Punta quindi il dito contro il suo e dice «epiora». Nel giro di poco tempo, Takwarenchia e io abbiamo in comune una cinquantina di parole.

NEGLI AWÁ NON PERCEPISCO ALCUNA TENSIONE mistica o spirituale. Si tratta di un altro mito occidentale, un po’ alla stregua del buon selvaggio o del concetto secondo il quale i popoli tribali sono ambientalisti. Iuwí, figlio di Piraí, autore del commovente discorso di benvenuto e abile cacciatore della scimmia urlatrice, ha cominciato a chiedere informazioni sul mio coltellino svizzero, cosa in netta contraddizione con le parole del padre, secondo le quali gli Awá non nutrono alcun interesse nei confronti dei nostri oggetti. Ogni volta che ci incontriamo, mi dice con un’espressione molto sicura: «Tu mi darai quel coltello». È un fatto del tutto naturale. Vedono gli oggetti meravigliosi dei kanai e li vogliono. Tuttavia, regalare oggetti a questa gente porterebbe alla discordia e creerebbe una cultura della dipendenza. È stata una delle primissime cose che Carlos ha voluto sottolineare prima del nostro arrivo qui. A Juriti non dovevamo condividere nulla con nessuno, nemmeno il cibo. Personalmente, ne so qualcosa. Trent’anni fa stavo attraversando una foresta pluviale in Madagascar in compagnia di un giovane del posto che conosceva i versi di tutti gli uccelli, cosa che aveva imparato grazie a un’attenta osservazione di ogni esemplare. Ne conosceva addirittura i nomi latini, mentre la gente del villaggio era dedita all’agricoltura e di rado entrava nella foresta. Era un naturalista nato e un giovane davvero in gamba. Quando fu la volta di tornare a casa, gli regalai il mio minuscolo binocolo Nikon da viaggio. Anni più tardi venni a sapere che era stato ucciso dagli abitanti del villaggio, invidiosi perché continuava a ricevere regali dai turisti.

OGNI ANIMALE È PADRONE DI UN ALBERO
SONO STATI AVVISTATI DEI MAIALI SELVATICI. Alcuni Awá si dirigono verso la foresta, e mi unisco a due uomini, due donne e tre piccoli di coato rosso che hanno slegato dai pali. Hanno le dimensioni di un gattino, ma non hanno alcuna difficoltà a tenere il passo con noi per la nostra scarpinata di una dozzina di chilometri attraverso la foresta. Attraversiamo un ponte di tronchi lungo circa sei metri sul Rio Carú, che scorre sotto l’insediamento e il villaggio. Davanti a noi, nell’ombra screziata, saetta e poi scompare un’enorme farfalla del genere Morpho, che ci abbaglia con il suo bianco crema maculato di blu elettrico. Ci sediamo su un ceppo, dove si fermano sempre a riposare, per la prima volta dopo quarantacinque minuti di cammino. Le donne continuano a lanciare i coati nella foresta accompagnando il gesto con scrosci di risa e questi animali tornano invariabilmente indietro, divertiti. Una delle donne imita il verso di un macaco prego, il cebo cappuccino, che ha sentito pochi istanti prima in lontananza: la stessa nota ripetuta sette volte. Scopro invece che non si tratta di una scimmia, bensì di suo marito che cerca di ritrovarla. Ogni Awá porta il nome di una pianta o un animale con cui avrà una relazione speciale per il resto della vita. Ogni specie di albero ha un animale come proprietario. Gli araras, i pappagalli, sono i proprietari delle araucarie. I guariba, le scimmie urlatrici, sono i proprietari degli alberi di uwariwa. Tutti gli altri animali che mangiano i frutti di questi alberi devono chiedere il permesso ai pappagalli e alle scimmie urlatrici. Tutta la foresta è strutturata in questo modo. Esiste il mondo degli umani morti, gli antenati dei nemici, i Guajajara, caduti in buchi occultati dal tempo ma ancora vivi, e un paradiso di esseri magnifici chiamati Karawara, che scendono sulla Terra per cacciare e procurarsi acqua e miele. Con la scomparsa della cacciagione si verificherà una carestia universale, perché ciò non sarà la fine solo degli Awá ma rappresenterà anche l’estinzione dei Karawara. La fine della foresta corrisponderà alla fine del loro universo. La carestia travolgerà il paradiso e la Terra».
Continuiamo ad avanzare sul sentiero che diventa sempre meno battuto e dopo una manciata di chilometri dobbiamo farci strada a suon di machete nel garbuglio della mata de cipó, la foresta infestata da rampicanti. Raggiungiamo un luogo incantevole, una spianata a ridosso della riva di un piccolo corso d’acqua. Una delle donne si fa il bagno sedendosi nel ruscello e voltandoci le spalle, come in un dipinto di Gauguin. Il colore della
foresta è smeraldo intenso e noi ci siamo seduti proprio dentro. Mentre ci stiamo godendo l’ultimo sole del pomeriggio, Uirá viene punto da quattro vespe, io al pollice sinistro, che si gonfia a vista d’occhio. Nell’incanto della foresta si può venire sopraffatti da una miriade di cose. Gli Awá sono terrorizzati dai fantasmi dei morti la parte cattiva di una persona che non riesce ad andare in paradiso, la rabbia che uno deve nutrire per essere in grado di andare a caccia e uccidere gli animali per i fratelli e le sorelle che si aggirano per la foresta, provocano rumori inspiegabili e sono responsabili di malattie, sfortune e morte.

CULTO DEL PROGRESSO
PER ME È IL MOMENTO DI PRENDERE un furgone diretto a São Luís e da lì tornare in aereo a Rio. I miei dieci giorni tra gli Awá acquistano già le sfumature di un sogno, un sogno indimenticabile. Ritorno col pensiero agli isolados. Quanto sono uniti nella loro determinazione a non avere nulla a che fare con la modernità? Sono in grado di difendere il loro operato con le opportune argomentazioni? Le loro conversazioni, le storie raccontate attorno al fuoco devono essere davvero interessanti.
A marzo una squadra del Funai ha raggiunto la regione di Igarapé Mão de Onça per monitorare la presenza degli isolados per la prima volta dal 1997, quando ne vennero censiti nove. Durante questa spedizione sono stati trovati i resti di un fuoco spento di recente e un capanno con il tetto di foglie fresche di babaçu, a indicare che si aggiravano ancora per quella zona. A giugno la squadra è tornata e non ha trovato segni della loro presenza, ma ha scoperto nuovi sentieri per il trasporto del legname a qualche chilometro di distanza. Leonardo Lenin, capo della squadra del Funai, teme il peggio.
A Brasilia, si intravedono segni incoraggianti: il ministro della Giustizia Cardoso potrebbe rendere attuativo il decreto di sfratto per i madeireiros. A giugno, 300 soldati e 46 veicoli sono intervenuti per lo sgombero nel territorio Alto Turiaçu. Sono state smantellate sette segherie illegali e migliaia di tronchi sono stati distrutti. Cardoso sostiene che la prossima mossa sarà l’invio di soldati nel territorio Awá e il rafforzamento delle truppe che hanno eseguito i tanto ritardati e parzialmente riusciti sfratti degli invasores dal territorio dei Xavante l’anno scorso. «Operazione Awá », ovvero lo sfratto di 1.500 famiglie, verrà portata a termine entro la fine dell’anno.
Lo spero di cuore. Mi piacerebbe tornare e imparare un po’ di più dell’affascinante cosmologia di questo popolo, registrare il verso di uccelli e scimmie, e poi l’impeccabile imitazione fatta da questi abitanti della foresta. Il Brasile non può permettersi il lusso di perdere gli Awá. L’umanità intera non può consentire la scomparsa di queste ultime tribù che vivono della generosità delle loro foreste, delle loro scogliere o dei loro deserti e che sono parte integrante di ecosistemi unici, assieme a tutte, le altre specie. Questi ultimi Awá sono preziosi. Ha detto bene Octavio Paz: «L’ideale di un’unica civiltà per tutti, implicito nel culto del progresso, ci impoverisce e ci mutila. Ogni visione di un mondo che si estingue, ogni cultura che scompare, riduce la possibilità di vita».
(Traduzione Saulo Bianco)
Per saperne di più sugli Awá e sulla campagna di Survival International per la loro tutela: http://www.survival.it/awa.

Genesi, la mostra di fotografie di Sebastião Salgado, è un progetto durato 8 anni di lavoro e 25 reportage, dalle Galápagos all’Amazzonia, di cui è partner anche il Wwf. Resterà aperta fino all’11 maggio a Venezia: www.treoci.org.