Matteo Nucci, il Venerdì 14/2/2014, 14 febbraio 2014
SCRIVO LIBRI TRASGRESSIVI. DI AMORI CHE DURANO DOPO LA MORTE
Roma. Da oltre quarant’anni, Giorgio Montefoschi organizza le sue giornate con disciplina ferrea, «impiegatizia » dice lui. Si alza prestissimo, legge i giornali, si siede al tavolo di una grande stanza, spalle a una montagna di classici di letteratura greca e latina, impugna la stilografica e soffre di fronte alla pagina bianca. Dopo tre ore, se ha riempito quindici o sedici righe, ossia mezza cartella dattiloscritta, è felice. La felicità e la soddisfazione in un lavoro del genere sono necessariamente brevi. Il pomeriggio, Montefoschi torna nella stanza e legge, lavora ai libri che recensisce e accende il computer che i quotidiani gli hanno imposto di usare. In questa maniera, oltre a innumerevoli articoli, contributi critici e reportage, Montefoschi ha scritto sedici romanzi, uno dei quali - La casa del padre - esattamente vent’anni fa vinse il Premio Strega. L’ultimo esce oggi, s’intitola La fragile bellezza del giorno (Bompiani, pp. 223, euro 17) e per lui conta forse più di tutti i quindici precedenti. Dice che è il suo libro più autobiografico e che gli è costato troppo e ora la mattina non può rimettersi a scrivere e soffre il vuoto e la vita monacale a cui si è costretto senza sceglierla. Forse allora partirà. Forse per l’India, il Paese che ama di più. O dovunque possa trovare un po’ di pace. Perché lui non ne ha affatto. Del resto non è come lo descrivono - ripete - solo perché legge ogni giorno la Bibbia e s’interroga costantemente sulla fede che non riesce a trovare. È inquieto, aspetta il giudizio dei lettori con l’ansia con cui vive il tempo, la stessa ansia dei suoi personaggi e in particolare di Ernesto Chiarini, protagonista di questo libro «trasgressivo, perché oggi una storia di amore lunga una vita intera è una storia trasgressiva». Ma l’amore che Ernesto ha conosciuto, rincorso e custodito con gelosia, in realtà è eterno, dura più della vita stessa, era iniziato prima e continuerà dopo, è l’amore più grande che si possa immaginare, e apre le porte al mistero con cui Montefoschi tenta di fare i conti, sempre fallendo - dice - «perché il mistero è destinato a rimanere tale».
È per questo che i suoi personaggi sembrano sporgersi su qualcosa che non possono afferrare?
«Proprio così. Si sporgono. Io metto uomini apparentemente irrilevanti di fronte al mistero e cerco di accompagnarli, ma poi c’è solo il vuoto. Io, del resto, quando scrivo, se posso non dico. In questo libro il momento più importante arriva con una carezza che il protagonista dà a suo nipote. In quella carezza sta il mio modo di intendere la letteratura».
Si tratta di un libro esplicitamente pieno di letteratura. Ernesto è uno scrittore e scopriamo che i libri che ha scritto sono gli stessi di Montefoschi. Nella lotta contro il suo dolore inizia a scrivere un romanzo che costituisce un libro dentro il libro. Eppoi sono costantemente citate opere di grandi scrittori. Innanzitutto Gita al faro di Virginia Woolf.
«Un romanzo sublime. La fragile bellezza del giorno comincia da lì, dal secondo capitolo di Gita al faro, quando la Signora Ramsey, che è Tutto con la T maiuscola, non c’è più. Cosa succede quando Tutto è assente?».
Risponde un altro libro, forse: L’airone di Bassani.
«Bassani è un gigante della nostra letteratura. Nell’ Airodi ne c’è l’uomo disperato, senza dio, che avanza nel buio. Come il mio protagonista».
Ma Ernesto non perde completamente la speranza. E lì appare Cime tempestose.
«Emily Brontë ha scritto il romanzo perfetto sull’amore assoluto. Quando Heathcliff si getta sulla tomba di Catherine e cerca di scavare e di raggiungere l’amata. Ha presente di cosa parlo? Mai io ho letto un romanzo capace di raccontare un amore così travolgente».
Tutto accade a Roma. Ma questa città che lei descrive minuziosamente sembra diventato un non-luogo.
«Quando mi domandano “ancora Roma?” divento pazzo. Queste strade, sempre le stesse, i palazzi della Roma borghese, io li uso per mostrare altro, ossia il contrasto fra l’ambiente chiuso e ciò che l’ambiente non può contentere».
Lo scorrere del tempo, innanzitutto?
«Il tempo è il protagonista della letteratura. Domina sulla nostra quotidianità e non possiamo né vogliamo sottrarci. Io vivo il tempo in maniera ossessiva e non pacificata. Leggevo Schopenhauer, aspettandola, eccolo qui: dice di liberarsi dell’apparenza e del tempo. Ma come? Noi amiamo il tempo. Sappiamo che finisce eppure non possiamo immaginare nessun dopo se non attraverso i parametri del tempo».
È per questo che ciò che scrive sembra dominato dall’idea del ritorno?
«Se andrò in India, ora, andrò per tornare. Rivedere posti che conosco e amo mi dà una rassicurazione che sfiora l’immortalità ».
Lei è cresciuto tra i grandi scrittori del Novecento italiano. Su tutti Elsa Morante.
«Una scrittrice eccezionale. Pessimo carattere: perfida, bizzosa, intransigente e violenta. Chiusa su se stessa. In anni e anni non mi ha mai fatto una domanda sulla mia vita, mia moglie, i miei figli, nulla. La migliore scrittrice del Novecento».
E Moravia?
«Intelligentissimo. Però i suoi libri mi piacciono fino alla Noia esclusa. Lui, diversamente dalla Morante, era di una curiosità infinita. La prima volta che c’incontrammo mi fece un interrogatorio che sembrava di essere in questura».
Accanto alla Morante, allora, chi mette?
«Gadda e Bassani. Poi Cassola, Parise e Volponi».
Bassani e Cassola. Come ha vissuto le celebrazioni dei 50 anni del Gruppo 63?
«Parliamo dell’entità culturale che si è più autocelebrata nella storia della letteratura, eppure non ha lasciato un’opera da ricordare. Svillaneggiavano Bassani e Cassola cui non erano neppure degni di allacciare le scarpe».
E degli scrittori di oggi che pensa?
«Domina le classifiche ciò che non è letteratura, come Volo e Mazzantini, ma almeno il primo non pretende di essere riconosciuto in quanto scrittore. Una volta c’era la protezione del Pci, oggi c’è solo la tv. L’egemonia statunitense potrebbe dare buoni frutti. Io però ammiro scrittori come Bellow, Malamud, Updike. Non mi si dica che Franzen può essere messo sul loro stesso piano».
Lei non è stato protetto dal Pci ma fu socialista.
«Io sono sempre stato un antifascista non comunista, liberale, cristiano ma non cattolico. Mi hanno messo il marchio di socialista perché facevo Mixer, una trasmissione con cui abbiamo prodotto cose di grande pregio. Poi, certo, andavo a cena con Martelli, ossia il miglior ministro di Giustizia che abbia avuto il nostro Paese. Mi divertivo anche, ma verso l’una i politici andavano al sodo e cominciavano a parlare di potere, allora mi alzavo e salutavo».
Cristiano ma non cattolico. Mi dica di più.
«Che vuole che le dica. Io non sono credente, però non posso accettare che tutto finisca qui. Cerco disperatamente un senso. Voglio ritrovare tutti i miei cari, quando sarà finita. Ma voglio ritrovare loro. Non tre miliardi di cinesi».